Non puoi Sbagliare!

Il problema di P. era quello di avere due genitori, il padre soprattutto, che non riuscivano a staccare e a dimenticare gli errori che lei poteva aver fatto in passato. Errori sciocchi, che qualsiasi persona combina.

Una volta rigò la portiera dell’auto facendo manovra e, da allora, nonostante guidasse relativamente bene e non arrivasse ogni giorno con la macchina incidentata, la loro frase, nel salutarla era – E mi raccomando la macchina, non rigarla di nuovo! -.

Un’altra volta invece, in giovane età, e per fare una sorpresa a mamma e papà, decise di rivestire le pareti della sua cameretta con una tappezzeria azzurra, pennellata di bianco, a rappresentare la spuma delle onde del mare. Combinò un disastro. La tappezzeria venne messa malissimo, la colla era ovunque e presto, molti fogli della carta da parati si staccarono. Negli anni successivi le ricapitò di mettere dell’altra tappezzeria, per se stessa e per gli amici, in modo egregio, preciso e meticoloso ma, per suo padre, davanti a qualsiasi risultato, prevaleva sempre la tragedia combinata anni prima nella sua camera da letto nonostante fu proprio grazie a quella “tragedia” che lei capì come bisognava applicare il rivestimento.

Per loro non c’erano migliorie. Lei era brava, efficiente, educata, pignola, preparata ma, se da ragazza, aveva combinato un danno, come esempio veniva considerato solo quell’unico danno a confronto di altre cento cose fatte poi bene.

Per P., tutto questo era frustrante. Logorante. E posso capirla.

Sembrano stupidaggini invece sono deleterie. Sovente si abbozza come ad avvallare la classica frase “eh ma tanto loro sono fatti così”. Si sopporta, si lascia parlare e si va avanti… invece, queste considerazioni, questi pregiudizi, sciupano l’anima.

E’ più facile spezzare un atomo che un pregiudizio – (A. Einstein).

Ogni volta, sottolineare così quell’errore, era come infilare una piccola lama nello stomaco.

Significava far rivivere l’imbarazzo dello sbaglio, evidenziare il “non vali niente, non sei capace, sei solo in grado di fare le cose fatte male, io non ho stima di te”, puoi fare mille cose fatte bene ma, quella fatta male, è stata la più grave di tutte. Non c’è rimedio. Sarà lei, d’ora in poi, a dirigere le tue azioni. Ogni cosa che farai sarà pilotata da un qualcosa di errato. Un ottimo incentivo per l’autostima.

Errare non è concesso. Non è umano.

Se si pensa che diventiamo grandi proprio grazie agli errori. Se si pensa a quanto gli errori siano importanti nella nostra vita, fin da bambini, quando grazie a loro capiamo come fare meglio, ora, non valgono più, sono come creature malefiche che ci rovinano l’esistenza, che ci allontanano dai nostri cari attraverso la svalutazione, il giudizio negativo, la falsa tolleranza. Sì, perché il resto, le nuove esperienze, vengono accettate dai genitori come se fosse doveroso accettarle ma, in realtà, non si vorrebbe, non c’è fiducia. E’ emarginazione.

Un continuo dito puntato contro che dice – Tu non sei in grado di fare meglio di così – cioè non cresci, non hai scalini di miglioria, non hai speranza.

Le tue colonne portanti, i tuoi genitori, quelli sui quali più basi la tua intera vita, non si fidano di te. Tu non vali e sai perfettamente di non aver mai fatto nulla per meritare questo.

Posso apparire esagerata ma non si riesce a comprendere l’inestimabile danno che questo crea nel nostro inconscio. Un danno molto più grave del non essere stati in grado di mettere bene una tappezzeria, dell’aver rigato una macchina, o quant’altro. Il regalo della titubanza.

E allora si susseguono le menzogne.

Ad ogni risultato sgradevole: “Non lo dico, perché se lo dico guai… chissà cosa penseranno di me e cosa penseranno di me nel futuro”. Si cela, ci si nasconde per respirare, per vivere.

E si susseguono le paure: “Speriamo non vengano mai a scoprirlo”.

E si susseguono i sensi di colpa, sia del malfatto che della bugia seguente.

Ma non è finita. C’è un risvolto ancora peggiore. Ancora più maledettamente incomprensibile che nasce quando: la tua cara amica riga la macchina proprio come hai fatto tu, suo padre la sgrida e TUO padre invece… la difende (!), spiegando all’altro genitore che può capitare e che NON LO FARA’ PIU’. Evviva!

…Dammi una lametta che mi taglio le vene…! – (D. Rettore)

Non sto enfatizzando, credetemi, e so che molti purtroppo, sono vittime di questo metodo che pare il massimo esponente dell’educazione.

La situazione è drastica (sorrido). Le palpebre si afflosciano verso il basso assieme alle guance e si inizia ad assumere la classica espressione da basset hound confuso e incredulo che guarda il proprio padre col magone e si chiede “Perché? Perché io no? Perché io no questa coccola, questa fiducia, questa pazienza, questa speranza, questo incoraggiamento, questo consiglio a non mollare, al potercela fare…?”. Notate quante cose vengono a mancare?

“Allora la mia amica vale più di me”. Fine della storia.

Ora, se state leggendo questo articolo siete sicuramente delle persone adulte, almeno la maggior parte di voi, e sicuramente vi sembreranno solo sciocchezze. Agli occhi di un bambino però, e peggio ancora di un adolescente, tutto questo è più grave. E’ un tarpare le ali immeritato a parer mio.

Prosit!

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La Creazione di Gemma

“E allora mi guardai attorno.

Affianco a me, un uomo seduto per terra, stava chiedendo l’elemosina.

Una donna, vestita poveramente, mi passò davanti trascinando un cagnolino lercio e mezzo spelacchiato.

Un altro cane urinò sul sacchetto della spesa di un tizio che non se ne accorse.

Il pullman sul quale salii era nel degrado più totale: sedili rotti, pareti pasticciate da scritte e scarabocchi, un mucchio di spazzatura sul pavimento.

Molta gente puzzava, aveva sguardi tristi, si lamentava.

L’autista era stanco, svogliato.

Cosa mi stava trasmettendo tutto quello? Dovevo imparare a leggere: decadenza, povertà, angoscia.

E’ così che ti senti Gemma? – chiese una voce dentro di me.

Dovetti ammetterlo. Erano esattamente i sentimenti che nutrivo da quando avevo perso il lavoro. La paura per la mancanza di denaro, il sentirmi una “poverina”, il pensare di non meritare niente. Mi facevo pena da sola.

Guarda… guarda Gemma cosa sei. Guardati attorno, rispecchiati – disse ancora la voce.

Rimasi sbigottita. Non potevo credere di avere quella robaccia dentro. Quello… quello schifo, quella sporcizia, quell’insofferenza, tutta quella miseria mi apparteneva.

In quel modo, non potevo far altro che scendere sempre più nel deterioramento più totale e no… non potevo permettere una cosa così.

Dovevo effettuare la mia ripresa, dovevo modificare e trasmutare le emozioni interne.

Dovevo provare a sentirmi ricca, gioiosa, pulita, sollevata, se volevo cambiare la realtà intorno a me.

Se volevo creare occasioni a me proficue.

Dovevo smetterla di svalutarmi, di svalutare la mia vita, di ritenermi una bisognosa, un’indigente. Una micragnosa.

E allora cambiai. A fatica lo feci. Fu penoso, sfibrante.

I risultati erano così minimi da non recare nemmeno soddisfazione.

Iniziai a concentrarmi su quello che avevo e non su quello che non avevo.

Iniziai a ringraziare incondizionatamente, ossia senza un motivo. Ringraziavo e basta. A quel punto, l’Universo, si sarebbe trovato obbligato a darmi qualcosa che rispondesse al mio ringraziamento se era vero che tutto era uno specchio, un riflesso. Qualcosa per la quale fosse valsa la pena ringraziare.

Iniziai ad immaginare. Diversamente. Nelle mie visualizzazioni non avevo più l’espressione triste e sempre gli stessi vestiti addosso. Sorridevo, ero ben pettinata, vestita in modo classico ma carino.

Le prime volte, la mente, si intrometteva. Mi diceva, sogghignando, “Ma cosa stai facendo? Ah! Ah! Ah! Mi fai ridere. Non hai un soldo, non hai un lavoro, non hai niente e ti credi di essere una principessa! Sii seria ragazza! Seee… sogna sogna!“.

La detestavo ma poi, con il duro allenamento, la feci stare zitta. Non riuscì più ad inquinarmi e potei dare sfogo ai miei desideri. Sognavo sempre più in grande fino ad educare di molto il mio inconscio che ormai mi permetteva di vedermi come immaginavo. E dopo il vedermi ci fu il percepirmi e dopo il percepirmi il vivere. Sempre di più. Sempre di più.

Fino ad arrivare al giorno in cui, alla fermata dell’autobus, accanto a me, vidi persone vestite bene, di tutto punto. Un uomo elegante, con la ventiquattrore, parlava compunto al cellulare. Stava aspettando un collega.

Una mamma molto graziosa mi passò davanti, mi sorrise, e aggiustò un boccolo alla sua bimba che sembrava una bambolina.

Il pullman sul quale salii era nuovo di zecca. Giallo e blu. Quasi vuoto.

L’autista rispose al mio saluto e continuò a fissarmi mentre convalidavo il biglietto dietro di lui.

Ero carina quel giorno con i capelli lunghi, raccolti da una parte, e un trucco leggero.

Mi sedetti accanto ad una signora anziana dalla faccia simpatica nonostante tutti i posti liberi.

Non ci volle molto a prendere confidenza e mai… mai mi sarei aspettata che, quella donna, fosse in realtà la mia nuova datrice di lavoro. Lo sarebbe diventata da lì a poco. Pochissimo. Aveva voglia e bisogno di una “dama di compagnia”. Era molto ricca e non mi trattò mai come una semplice governante. Nella sua villa io mi sentivo una Regina. Potevo fare tutto quello che volevo e potevo anche avere i miei momenti di libertà. Era come stare assieme ad una nonna o una zia.

Il giardiniere, la donna delle pulizie, i suoi parenti, tutti mi volevano bene. Avevo un buon stipendio ed ero felice.

Non le chiesi mai perchè quel giorno prese il pullman avendo a disposizione soldi e persone per farsi accompagnare ovunque, ma così doveva andare.

Non glielo chiesi perchè qualcosa dentro di me già lo sapeva.

Io l’avevo creato. Io, involontariamente, le feci prendere il pullman. Io mi ero creata quella situazione. L’agiatezza che vivevo. La bellezza di quella mia nuova vita.

E, questa volta, il – Grazie – più grande, lo rivolsi a me stessa. Ero una grande Guerriera”.

Prosit!

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