“E allora mi guardai attorno.
Affianco a me, un uomo seduto per terra, stava chiedendo l’elemosina.
Una donna, vestita poveramente, mi passò davanti trascinando un cagnolino lercio e mezzo spelacchiato.
Un altro cane urinò sul sacchetto della spesa di un tizio che non se ne accorse.
Il pullman sul quale salii era nel degrado più totale: sedili rotti, pareti pasticciate da scritte e scarabocchi, un mucchio di spazzatura sul pavimento.
Molta gente puzzava, aveva sguardi tristi, si lamentava.
L’autista era stanco, svogliato.
Cosa mi stava trasmettendo tutto quello? Dovevo imparare a leggere: decadenza, povertà, angoscia.
– E’ così che ti senti Gemma? – chiese una voce dentro di me.
Dovetti ammetterlo. Erano esattamente i sentimenti che nutrivo da quando avevo perso il lavoro. La paura per la mancanza di denaro, il sentirmi una “poverina”, il pensare di non meritare niente. Mi facevo pena da sola.
– Guarda… guarda Gemma cosa sei. Guardati attorno, rispecchiati – disse ancora la voce.
Rimasi sbigottita. Non potevo credere di avere quella robaccia dentro. Quello… quello schifo, quella sporcizia, quell’insofferenza, tutta quella miseria mi apparteneva.
In quel modo, non potevo far altro che scendere sempre più nel deterioramento più totale e no… non potevo permettere una cosa così.
Dovevo effettuare la mia ripresa, dovevo modificare e trasmutare le emozioni interne.
Dovevo provare a sentirmi ricca, gioiosa, pulita, sollevata, se volevo cambiare la realtà intorno a me.
Se volevo creare occasioni a me proficue.
Dovevo smetterla di svalutarmi, di svalutare la mia vita, di ritenermi una bisognosa, un’indigente. Una micragnosa.
E allora cambiai. A fatica lo feci. Fu penoso, sfibrante.
I risultati erano così minimi da non recare nemmeno soddisfazione.
Iniziai a concentrarmi su quello che avevo e non su quello che non avevo.
Iniziai a ringraziare incondizionatamente, ossia senza un motivo. Ringraziavo e basta. A quel punto, l’Universo, si sarebbe trovato obbligato a darmi qualcosa che rispondesse al mio ringraziamento se era vero che tutto era uno specchio, un riflesso. Qualcosa per la quale fosse valsa la pena ringraziare.
Iniziai ad immaginare. Diversamente. Nelle mie visualizzazioni non avevo più l’espressione triste e sempre gli stessi vestiti addosso. Sorridevo, ero ben pettinata, vestita in modo classico ma carino.
Le prime volte, la mente, si intrometteva. Mi diceva, sogghignando, “Ma cosa stai facendo? Ah! Ah! Ah! Mi fai ridere. Non hai un soldo, non hai un lavoro, non hai niente e ti credi di essere una principessa! Sii seria ragazza! Seee… sogna sogna!“.
La detestavo ma poi, con il duro allenamento, la feci stare zitta. Non riuscì più ad inquinarmi e potei dare sfogo ai miei desideri. Sognavo sempre più in grande fino ad educare di molto il mio inconscio che ormai mi permetteva di vedermi come immaginavo. E dopo il vedermi ci fu il percepirmi e dopo il percepirmi il vivere. Sempre di più. Sempre di più.
Fino ad arrivare al giorno in cui, alla fermata dell’autobus, accanto a me, vidi persone vestite bene, di tutto punto. Un uomo elegante, con la ventiquattrore, parlava compunto al cellulare. Stava aspettando un collega.
Una mamma molto graziosa mi passò davanti, mi sorrise, e aggiustò un boccolo alla sua bimba che sembrava una bambolina.
Il pullman sul quale salii era nuovo di zecca. Giallo e blu. Quasi vuoto.
L’autista rispose al mio saluto e continuò a fissarmi mentre convalidavo il biglietto dietro di lui.
Ero carina quel giorno con i capelli lunghi, raccolti da una parte, e un trucco leggero.
Mi sedetti accanto ad una signora anziana dalla faccia simpatica nonostante tutti i posti liberi.
Non ci volle molto a prendere confidenza e mai… mai mi sarei aspettata che, quella donna, fosse in realtà la mia nuova datrice di lavoro. Lo sarebbe diventata da lì a poco. Pochissimo. Aveva voglia e bisogno di una “dama di compagnia”. Era molto ricca e non mi trattò mai come una semplice governante. Nella sua villa io mi sentivo una Regina. Potevo fare tutto quello che volevo e potevo anche avere i miei momenti di libertà. Era come stare assieme ad una nonna o una zia.
Il giardiniere, la donna delle pulizie, i suoi parenti, tutti mi volevano bene. Avevo un buon stipendio ed ero felice.
Non le chiesi mai perchè quel giorno prese il pullman avendo a disposizione soldi e persone per farsi accompagnare ovunque, ma così doveva andare.
Non glielo chiesi perchè qualcosa dentro di me già lo sapeva.
Io l’avevo creato. Io, involontariamente, le feci prendere il pullman. Io mi ero creata quella situazione. L’agiatezza che vivevo. La bellezza di quella mia nuova vita.
E, questa volta, il – Grazie – più grande, lo rivolsi a me stessa. Ero una grande Guerriera”.
Prosit!
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