Vivere il Presente e “staccare” davvero quando si è nella Natura

La maggior parte delle persone che mi racconta l’ultima esperienza vissuta in natura si sofferma molto su un qualcosa che è successo di eclatante ma mi rendo conto che non va oltre.

Prendiamo, per esempio, come luogo, la montagna. Amo la montagna, la vivo, sono un’escursionista e un’esploratrice per cui, amici e no, vengono spesso a raccontarmi le loro avventure per poterle così condividerle con me. Per imparare, per coinvolgermi o anche per insegnarmi.

Finchè mi parlano di tecnica non discuto su nulla, anzi, posso solo che stare zitta e ascoltare ma se il discorso vira verso mete più… spirituali o emozionali, mi accorgo subito che molti di loro, in realtà, non sanno neanche di cosa stanno parlando. Questa però non vuole essere una critica, ognuno è libero di vivere come vuole gli eventi ma, essendo che essi stessi ricercano con smania ciò che raccontano, ho deciso di scrivere quest’articolo per aiutare e quindi non per giudicare.

Per ricollegarmi alla frase iniziale di questo post, come dicevo, vengono registrate solo immagini eccezionali. Cioè: se avviene un incontro a sorpresa con un animale, se si può godere di un panorama mozzafiato, se si nota un fiore bellissimo, se si vive un fenomeno particolare regalato da Madre Natura, etc… allora lo si serba dentro, lo si ricorda e lo si riporta, ma se mentre si cammina per un sentiero io chiedessi – Che alberi c’erano dieci minuti fa attorno a noi? – in pochi risponderebbero. Questo non significa che bisogna sapere per forza il nome di tutte le piante, il problema è che non si saprebbero neanche descrivere. Quelle foglie com’erano? Grandi o piccole? Che forma avevano? Che venature avevano? Non si sa.

ESSERCI

Non si sa perché non si osserva ma, in questo particolare caso, “osservare” non significa solo “guardare”. Significa “esserci”. Inoltre è anche molto utile “osservare”, in luoghi montani, al fine di evitare di perdersi e riuscire ad orientarsi.

Quando abbiamo iniziato questo percorso, hai camminato su pietre o su terra battuta? L’edicola con dentro quella piccola Madonnina, all’inizio della strada, l’hai vista? Che due farfalle stavano facendo l’amore su quell’Orchidea selvatica l’hai notato? -. La risposta è (quasi sempre) – No -.

Questa non è una colpa. Tutto ciò accade semplicemente perché, in realtà, non riusciamo a staccare con la nostra parte materiale. La cosa è un po’ difficile da fare e anche da spiegare. La nostra porzione fisica ci serve durante un’escursione, così come ci serve in ogni azione della nostra vita. In un’avventura in montagna la Mente deve essere presente. Ci aiuta a scegliere, a valutare, ad essere attenti. Il corpo deve rispondere a determinati impegni, ci avvisa se ci stiamo disidratando, ci permette di raggiungere luoghi meravigliosi. Non possiamo e non dobbiamo distaccarci del tutto da quello che siamo nella materia ma non dobbiamo neanche percorrere quel momento in totale fisicità.

La nostra parte spirituale è quella che più di tutte può servirci. Essa è ricca delle virtù quali: la preveggenza, la visione a 360°, la forza, il coraggio, l’amore, il riconoscere la bellezza, la gratitudine, la comunione, la contemplazione, l’osservazione, l’esserci e molte altre. Ogni giorno della nostra vita dovremmo vivere riflessi in questa parte di noi ma è ostico mentre si deve esistere all’interno della nostra quotidianità con tutto quello che comporta. Una giornata in montagna, che nasce proprio al fine di “staccare”, termine usato da tutti, permette questo più facilmente e può anche essere un buon allenamento da inserire poi nella vita di tutti i giorni e in ogni luogo.

Quante volte si sente dire appunto la frase – Andare a fare una passeggiata in natura per “staccare” -. Per non pensare, per rifocillarsi di energia positiva, per acquisire salute sia fisica che mentale, per svagarsi e rasserenarsi, per allontanare da noi i problemi. Tutto bellissimo, il fatto è che non serve a niente se non si vive – quel modo – in un – determinato modo -.

Nel momento stesso in cui si fa ritorno a casa, a cullarci vagamente, può essere solo il ricordo di quello che abbiamo passato, ma questo non giova a nulla e ci ritroviamo fin dalla sera stessa, più stanchi forse, ma non con un animo diverso o migliore.

Sai… è che quando cammini su quei monti, cambia il luogo ma tu sei esattamente dov’eri prima, nella tua dimensione di sempre, quella piena di problemi e fastidi e preoccupazione. Ebbene sì.

Ti sembrerà assurdo quello che dico perché tu affermi di aver avuto accanto a te degli alberi, un torrente, delle pietre e le farfalline. Tutto ciò ti ha donato gioia perché son cose che non vedi sempre. I profumi che penetrano nelle tue narici non sono paragonabili a quelli che respiri ogni giorno e quei panorami non hanno nulla a che vedere con quelli che puoi osservare dal tuo balcone.

Non parliamo poi se ti capita di vedere un animale selvatico (come dicevo prima): un Camoscio, o un Capriolo, o un’Aquila che tu ovviamente non riconosci come Aquila, ma hai visto un coso enorme volare, nettamente diverso dai Piccioni ai quali sei abituato. Ecco, in quei momenti, ti sembra di aver vissuto qualcosa di grandioso e pensi di essere riuscito nel tuo intento.

Non è così. Ponendo attenzione puoi notare che la tua Mente è sempre proiettata verso un tempo che non è quello che stai vivendo. O è il passato o è il futuro. Quando si parla di passato e futuro non si intende un distacco di anni. Nel passato regna la depressione mentre nel futuro regna l’ansia. Detta così sembra grave e lo è ma ho voluto prendere gli stadi massimi di questi tempi per farti comprendere meglio.

Mentre cammini in montagna pensi magari a tuo marito che è rimasto a casa… “chissà cosa starà facendo, poteva venire con me quel pigrone!”. Pensi che quello è il tuo ultimo giorno di ferie e dall’indomani ti aspetta un periodo di lavoro molto intenso. Vedi un Giglio meraviglioso “oh! A mia mamma piacerebbe tanto, quasi che glielo colgo, no… però… non è giusto toglierlo da qui e poi seccherebbe fino a stasera”. In casa hai tutto? “Chissà se arrivo in tempo per comprare quelle cose che mi mancano e preparare cena”. “Cavoli, domani è il 15 del mese, mi scade la bolletta della luce”. “Ma guarda se doveva venire anche lei oggi, non la sopporto”. “Che stanchezza ma quanto manca?”. “Dio, speriamo di non incontrare Vipere perché ne ho il terrore”. “Stasera chiamo Giovanni e gli dico che questo è un posto magnifico per i funghi!”. “Che nuvole laggiù! Ma pioverà? Speriamo di no, è così piacevole questo sole”. “Sono le dieci e quel vigliacco non mi ha ancora scritto”. E intanto la montagna, con tutte le sue meraviglie, ti scorre sotto il naso e non vedi nulla.

Se si riuscisse a vivere il Presente, chiamato anche “Qui e Ora” tutto sarebbe diverso. E di molto. Non solo per il momento in sé, per quel godere in toto e in assoluto il luogo in cui sei con tutti i suoi ingredienti, ma soprattutto perché, così facendo, coagulandoti totalmente con Madre Natura, allora sì che potrai portarti a casa tutti i suoi benefici i quali dureranno giorni in voi.

Sii quella foglia! E a casa potrai sentirti leggero e capace di accettare ogni cambiamento.

Sii quell’acqua! E a casa potrai sentirti fresco e nutrimento per gli altri.

Sii erba! E a casa potrai sentirti forte e pronto ad ogni evenienza.

Sii pietra! E a casa potrai sentire che nulla può scalfirti o buttarti giù.

Sii vento! Sole! Tuono! Pioggia!

Assorbi in te le caratteristiche di quello che ti circonda. Tocca quello che ti circonda. Annusalo. Guardalo con attenzione. Portati dentro ciò che è. Diventalo. Allora si che davvero ricaricherai le tue batterie e sveglierai in te qualità sopite da tempo.

Aguzza la tua vista, libera le tue orecchie, ascolta con il naso e impara ad usare altri sensi non biologici. La percezione, l’intuito, la capacità di vedere oltre, la bellezza sospesa dell’attesa, il brivido del coraggio. Senti con la tua pelle. Nessun organo, se non il cuore, è così adatto come la pelle per “sentire”. Diventa un tutt’uno con gli alberi, gli animali, i crinali, ti appartengono e tu appartieni a loro.

In quei momenti non esistono le bollette, il marito, la mamma, la paura delle vipere, il fidanzato che non ti scrive… esisti solo tu. Esistete solo tu e Madre Natura.

Provaci. Non ti sarà facile le prime volte ma quando ti sarai abituato non potrai farne a meno. Non farti ingannare dalla mente che considera questa un’evasione dalla realtà. Non credere di essere “fuori con la testa” in quel momento e di non poter fare attenzione o non riuscire a goderti quegli istanti. In realtà, acquisisci ancora più capacità. Tutto si amplifica e si moltiplica. Il cuore della Terra che batte ti passa tutto di sé. Nulla può sfuggirti. Fidati. Devi solo aver pazienza perché le prime volte ti sentirai all’inverso, come a non esserci.

Punta una foglia. Guardala come se fossi un microscopio vivente. Guardane ogni più piccola particella. Immedesimati in lei. Cosa sta sentendo? Quella lanugine che la ricopre, ricopre anche te. Se senti quella sua delicatezza è perché quella delicatezza ti appartiene. E’ anche la tua. Respira come respira lei. Impara a percepire il tuo sangue che scorre nelle vene come lei è consapevole della linfa che la nutre. Punta un ramo e poi un intero albero. E tutto quel bosco. I suoi suoni, il suo respiro, la sua voce. Che energia emana quel bosco? Cosa senti? A tua percezione personale, che tipo di vibrazioni sta emanando? Quello stato di Presenza che riesci a mantenere non racconta menzogna alcuna.

Se riesci in questo, col tempo, allora capirai cosa davvero significa “staccare” e potrai godere a lungo di quel contatto terapeutico. E non ti mancherà quel benessere perché sarà dentro di te. Impara le lezioni che questa grande Maestra ti insegna, sono tante e assolutamente adattabili alla tua vita in città. Sono lezioni meravigliose.

Ti auguro tantissime escursioni indimenticabili.

Prosit!

 

Le dimensioni contano

GIUDICARE O NON GIUDICARE? QUESTO E’ IL PROBLEMA

La scorsa estate mi trovavo in aperta campagna in compagnia di alcune persone. Certi erano amici di vecchia data mentre altri non li avevo mai visti. Tra questi ultimi c’era un ragazzo, abbastanza estroverso, che ha messo a dura prova il mio Giudizio. Anzi, il mio Demone del Giudizio, che sbatteva per uscire in tutta la sua maestosa bellezza ma che dovevo tenere a bada.

Per arrivare subito al sodo ti dico che, mentre stavamo preparando il pranzo, una piccola ape curiosa si è avvicinata rapita dai profumi che il nostro cibo emanava e, senza pensarci su due volte, con un tagliere di plastica, quel ragazzo la spiaccicò sul tavolo.

“Apriti! Oh cielo!”, ti lascio immaginare cosa accadde dentro di me. Dapprima partì l’impulso assassino del prendere il tagliere più grande e sbatterglielo violentemente sulla testa senza pietà e, mentre la vocina della Coscienza mi suggeriva di non giudicare, quella del mio Daimon della Vendetta (figlia di Giudizio) urlava forsennatamente da dentro: – Ammazzaloooooo!!!! E’ guerraaaa!!!! Di lui non deve rimanere nemmeno un capellooo!!! Ha ucciso un essere innocenteeee!!! -… Ehm… vabbè, la smetto, comunque hai capito no?

Sul – non giudicare –, dal punto di vista alchemico, non mi ci soffermo più, l’ho già scritto molte volte, chi mi conosce sa cosa intendo, non posso mica ripeterlo ad ogni articolo… (Ovviamente è una battuta ma è vero, nel blog troverai molto su di lui).

STIAMO CALMI

Ma torniamo al giovane aguzzino. Riesco a mantenermi calma anche grazie alla complicità di un amico che, conoscendomi, mi guarda e con la sua espressione mi suggerisce “Stai tranquilla Meg, lascia perdere “.

Ritorno gaia, con il morale di sempre, e l’omicidio finisce (quasi) nell’oblio. Ma non passa neanche un quarto d’ora che una ragazza del gruppo esclama divertita – Che strano ‘sto ragno! Sembra una pallina! -.

Si trattava di un ragnetto grande come l’unghia di un mignolo e dalla buffa forma tondeggiante. Mentre tutti, in silenzio e incuriositi, ci sporgiamo in avanti per guardare l’aracnide, quello che ormai era divenuto il mio antagonista esclama – Ammazzalo! -.

Eh no! Ora hai rotto tre quarti di ciunfia Ciccio!

La ragazza gli gridò un secco – No! – ma, nonostante tutto, lui afferrò un pacco di crackers per spiattellare anche il ragno.

Perbacco! Ogni cosa diventava un’arma mortale tra le mani di quel tipo! Che poi… che razza di crackers avremmo mangiato completamente sbriciolati?! Beh, m’interessava di più la sorte dell’insetto.

NON DEVE RESTARNE NEANCHE UNO

Mi interposi tra lui e quell’animale e guardai l’umano dritto negli occhi.

La mia comunicazione non verbale, data dall’atteggiamento del mio corpo, parlò al posto mio ma se ciò non fosse bastato e gradiva proferir parola, avrebbe ricevuto anche una risposta orale senza problemi. Con Daimon che si contorceva dall’esultanza poi… sarebbe stato un vero spettacolo!

Il mio amico, lo stesso di prima, si rizzò sugli attenti, pronto a intervenire, sempre a causa del fatto che mi conosceva.

La prima espressione del Killer di Insetti fu quella (del suo Demone) della sfida. Quella del – Togliti di mezzo, chi ti credi di essere per impedirmi di fare quello che voglio?! – ma col passare dei secondi, data la mia sicurezza e la fermezza che emanavo, si trasformò in – Vabbè, ok, per stavolta non lo ammazzo ma la prossima volta non riuscirai a impedirmelo! -. Quasi come fosse una minaccia la sua. Aveva un po’ di insofferenza il ragazzo… un po’ di bassa autostima ecco.

Ci sedemmo per mangiare e si capiva lontano un miglio che lui ce l’aveva con me. Mi lanciava occhiate dure, mi snobbava se dicevo qualcosa (ma solo sottovoce, nell’orecchio di chi gli era di fianco) però il pranzo fu piacevole e divertente ugualmente. Risi molto e mangiai benissimo.

Chi mi conosce, oltre a sapere cosa intendo quando dico di – non giudicare – sa anche che non sono un’animalista. Non appartengo a nessun movimento. Semplicemente amo la vita, la natura tutta e rispetto ogni forma di vita, anche la più piccola. Quell’approfittarsi, date le dimensioni, di un essere vivente più minuto, mi infastidisce parecchio.

Durante il pomeriggio ci sedemmo intorno al tavolo a chiacchierare amabilmente e, non chiedermi come sia successo, il Giustiziere degli Insetti, cadde rovinosamente a terra ruzzolando giù dalla sedia. Presumo che sia andato all’indietro senza accorgersi di un gradino. Dev’essere stato sicuramente il Karma. Senza ombra di dubbio.

Lo dissi. Non riuscii a tenere la mia boccuccia chiusa. Dopo che ci fummo assicurati che non si era fatto nulla mi scappò – Il Karma… – ad alta voce.

Alcuni non capirono, in quanto non avevano assistito all’omicidio dell’ape, altri invece compresero alla perfezione, soprattutto lui, che adesso mi guardava sputando fuoco dalle narici.

Mi venne davanti alla faccia e urlò – Per un’ape di mer@@? Ne uccido sempre se è per questo e allora?! -. Senza scompormi gli feci notare che dal mattino si stava lamentando della sua vita: lavoro, genitori, fratello, etc… Non te l’ho detto a inizio articolo ma andò davvero così, era una lamentela unica.

Ape di mer@@, vita di mer@@ – gli dissi soltanto.

Un altro ragazzo suo amico, anche un po’ per sdrammatizzare, gli disse – Eh! – facendo spallucce, come a dire che il mio ragionamento non faceva una piega e, verso quest’ultimo, il giovane arrabbiato decise di rispondere con un sorriso esclamando – Ma quella cosa piccola… che punge pure ‘sta bast@@@@! -.

QUELLA COSA PICCOLA

“Quella cosa piccola…”. E mentre lo diceva mimava la sua misura tra le dita unendo l’indice verso il pollice. Ecco il problema, oltre all’eventuale puntura: la dimensione.

La ragazza del ragno, se ne uscì rimproverandolo in modo molto peace&love (adorabile) – Ma scusa, anche lei ha un cuore, un cervello, un intestino come te! Ha anche un’intelligenza! Non c’è differenza! – e lui ribattè – Si ma il suo cervello è grande come un pidocchio -.

Sì sì… era proprio una questione di dimensioni.

Sei piccolo, non vali niente. Anche tra gli umani vige un po’ questa legge, anche se abbastanza celata, “altezza mezza bellezza”. Se io sono più grande ho più potere.

Siamo totalmente abituati a credere solo e soltanto alla nostra vista. A quello che vediamo. A quello che possiamo, attraverso gli occhi, confutare. Noi non siamo quelli che – dobbiamo credere per vedere – ma – dobbiamo vedere per credere -. Tutti dei San Tommaso.

Ciò che non si vede, non esiste. E’ molto semplice.

La nostra vita va a rotoli (e ora non mi riferisco all’uccisione di insetti) ma noi non sappiamo vedere oltre, perché solo quello che concretamente appare merita il nostro credo. Dietro al famoso Velo di Maya.

Da qui si capisce perché crediamo solo ad un corpo e non alla nostra energia, perché crediamo di essere separati da tutto e da tutti, perché crediamo di finire là dove finisce la nostra pelle.

Da qui si capisce perché, neanche lontanamente, è concepibile per noi il fatto di avere un potere che non utilizziamo.

La grandezza immensa di quell’ape, come creazione dell’Universo (cioè al di là dell’utile suo operato in natura) non era minimamente contemplata da quel ragazzo. Vedeva solo quello che il suo sguardo gli permetteva di osservare. La perfezione e la meraviglia di quell’esserino erano lontanissime dal suo osservare. Incomprensibili quindi.

Frequenze, vibrazioni, onde elettromagnetiche, energia, input biochimici o elettrici… tutte queste cose che modellano la nostra vita ma impossibili da vedere, per noi non esistono.

Le dimensioni. Se si è maschietti il tutto inizia alle medie misurandosi il pisellino e facendo confronti con gli altri; se si è femminucce si guarda la misure delle proprie puppe ma sempre e comunque di dimensioni si deve parlare. Le grandi protagoniste.

Nonostante l’ironia che questi argomenti possono recare, ti giuro che c’è molto altro. Forse anche questo “altro” è una questione di dimensioni, da un certo punto di vista, ma credimi che sono dimensioni nettamente più entusiasmanti!

Ah! Dimenticavo… anche la dimensione dell’amore che provi per te stesso serve. Chi ama se stesso ama tutto il creato e non ha bisogno di sentirsi “Grande”.

Prosit!

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Quarto Dito del piede: i legami affettivi

LA PAROLA AL DITO

Quasi del tutto insignificante, il quarto dito dei nostri piedi, chiamato anche Pondulo (per alcuni Pondolo) o Pongolo, rivela spesso segreti assai importanti sulla personalità dell’individuo.

È il dito che rappresenta gli affetti ma soprattutto i legami famigliari o comunque sentimentali.

Sarà difficile trovare una persona con questo dito “strano” che ha nella sua vita legami senza problemi. Ma cosa si intende per “strano”? Strana sarà la sua forma. Ossia, anziché essere lineare o proporzionato alle altre dita, lo si vedrà sovrastare le dita vicine o nascondersi sotto di esse. Potrebbe anche essere stato ferito e quindi apparire poco piacevole alla vista. Potrebbe avere una forma irregolare, buffa. Ogni volta che qualcosa di lui attira la nostra attenzione possiamo star sicuri che, quella persona, ha problemi di relazione con tutti o con alcuni, oppure con una sola persona. Sapete che non mi piace essere assolutista, e non voglio esserlo nemmeno stavolta, ma di piedi ne ho visti a iosa e mai mi è capitato, finora, di dover ammettere l’incontrario. Per carità però, che sia chiaro, ormai mi conoscete, nulla è standardizzato.

PROPRIO QUEL DITINO LI’

Le dita dei piedi sono, molto spesso, davvero, delle incredibili fotocopie rispetto alle dita dei nostri genitori.

Guardando le dita del giovane Manuel ho trovato parecchio interessante leggerle. Sua madre e suo padre, amici miei, hanno entrambi piedi che si possono definire “belli”. Le dita lunghe, distese, lineari, dalla più alta alla più bassa. Dalla più grande alla più piccola.

Crescendo, a Manuel, il quarto dito del piede destro (la parte destra rappresenta: il padre, la parte sinistra rappresenta: la madre) iniziò ad andare sempre più giù, torcendosi verso il terzo dito (dito dell’ira/energia/aggressività) fin quasi a sparire. Guardando il piede di Manuel dal di sopra, sembrava avesse solo quattro dita.

Ebbene, dovete sapere che quando Manuel aveva sei anni (e piedi ancora perfetti) il padre lo abbandonò così come abbandonò la moglie e non si fece più vedere. Le altre dita di Manuel assomigliano tantissimo a quelle del papà. Sono praticamente identiche ma quel quarto dito non ha niente a che vedere con le dita di suo padre e nemmeno con quelle del resto della famiglia, nonni compresi. A una bizzarra forma tutta sua. E’ rimasto piccolo e si è andato a nascondere. Vedete, a volte, i cromosomi non sono tutto.

LA MANCANZA

Il rapporto/legame di quel ragazzino con il genitore maschio si è spezzato. È venuto a mancare. È morto come morto pare quel suo dito afflosciato sotto agli altri e nascosto. Morto tra tristezza, rabbia, repressione e angoscia. Morto a causa di un legame che doveva essere e non è.

Non mi crederete ma, il quarto dito del suo piede sinistro (madre), è bellissimo e coerente con le altre dita.

Insomma, quello di Manuel, sembra quasi uno scherzo della natura. Un ragazzo sano, robusto, perfetto… tranne quel ditino… quel ditino che se ne è quasi andato come fece suo padre qualche anno fa.

Scavando nell’intimità di chi ha un Pondulo “strano” vedrete che esce qualcosa in base ad un dolore, sopportato dentro, in riferimento ai legami. Cosa che non siete obbligati a fare, voglio dire… potete anche farvi i cavoli vostri, ma tale dettaglio può presentarvi una battaglia interna e silenziosa appartenente a quella persona della quale forse dovreste avere più comprensione. Qualcosa di affettivo la fa soffrire.

Ecco, a questo può servire sapere cosa traduce quel dito. Ad essere amorevoli, provando a dare a quell’individuo ciò che gli manca.

È chiaro che, anche chi ha dita perfette può nutrire un dolore di questo genere ma cambia l’approccio. La rimarginazione, o meno, della ferita. In quale modo viene vissuto quel dolore e quanto peso ha nella vita intima e intrinseca di quella persona.

È il dito dell’affettività in generale. Può indicare, infatti, anche quei soggetti dal modo di fare scontroso o incompresi che non riescono a legare con nessuno.

SEGNALI

Un callo o una ferita su questo dito indicano che ci sono problemi nelle relazioni, o in una relazione soltanto, tra la persona e qualcun’altro.

Ma non è finita qui. Dal punto di vista della Riflessologia Plantare, questo dito, accoppiato al quinto dito, rappresenta la salute delle nostre orecchie (parte superiore) e dei nostri denti (parte inferiore). Chi ha problemi a queste due parti del corpo potrà avere diversi inestetismi su queste due dita e, dal punto di vista psicosomatico, si indica il non voler sentire determinate cose oppure la sicurezza (traballante e poco ferma) che si ha nei confronti della propria esistenza. Spesso, infatti, il mancato rapporto con chi dovrebbe essere un pilastro fondamentale nella nostra vita può causare problemi anche in questo caso.

Una mia amica, tempo fa, mi raccontò che un giorno mentre stava giocando vicino a un cantiere, un tubo in ferro le cadde sul piede deformandogli per sempre il quarto dito del piede sinistro. Era piccolina.

La nonna la curò con del ghiaccio e della pomata non c’era altro da fare. Il dito non era ferito ma divenne viola e gonfio rimanendo poi deforme.

Questa mia amica si è sempre sentita abbandonata dalla madre (infatti viveva la maggior parte del suo tempo con la nonna). Sua madre era una bellissima donna ed era l’unico genitore per lei. Nacque infatti da una relazione clandestina ed era abituata a non avere un papà.

Avrebbe desiderato invece che sua mamma fosse il suo grande punto di riferimento ma, la bella donna, era sovente fuori con amiche e spasimanti, amante di una vita libera e mondana.

Potrei raccontare mille esempi sulle rivelazioni del quarto dito ma ora lascio a voi la bellezza del scoprirne altre. Magari proprio intorno a voi o su voi stessi.

Prosit!

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Borse sotto gli occhi? Svuota il sacco!

DUE PICCOLE ZAVORRE

Trattenere le emozioni, si sa, non è cosa buona e giusta. Ci facciamo del male inutile. Il vaso, dopo un po’, si riempie e straripa. Ma di quale vaso sto parlando? In questo specifico post si tratta in realtà di due vasetti posti proprio sotto ai nostri occhi (chiamati palpebre inferiori). Due raccoglitori.

Da che il mondo ha vita si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima e, in questa frase, qualcosa di vero c’è. Quando, attraverso le emozioni, la nostra parte animica non può esprimersi, perché non glielo permettiamo, è come se i suoi voleri iniziassero a ristagnare in questi contenitori. Ristagnano in molte altre parti del nostro corpo, e spesso possono causare disturbi fisici, sgradevoli da accettare e sopportare, ma oggi ci collegheremo più precisamente all’emozione della tristezza.

Chi vive una vita nella rabbia, anche celata, o nella paura, non può certo essere felice e quindi la tristezza riempie e avviluppa quella persona prendendo sempre più piede.

Le lacrime, anche se possono mostrare talvolta la gioia, ne sono il fenomeno visibile primario ma, in questo caso, non si parla di trattenere questo liquido, si tratta di trattenere molto di più. La menzogna ad esempio.

LE BUGIE HANNO UN PESO

“Svuotare il sacco” è collegato all’eliminare le emozioni ma anche al dire la verità. Non per questo si intende dover confessare per forza una tiritera di bugie raccontate, il problema risiede nel fatto che se hai paura (paura – madre di tutte le emozioni negative) menti. Menti agli altri che temi o menti a te stesso o menti per il quieto vivere ma comunque menti.

Diffidate da chi ha borse sotto gli occhi soprattutto se accompagnate da occhiaie, non è una persona del tutto sincera (le borse sono una cosa, le occhiaie un’altra).

Non dovete temerla. Probabilmente non è cattiva ma potrebbe avere dei lati oscuri in grado di danneggiare anche voi. Mica lo fa apposta ma, per la sua salvaguardia e il suo benessere, potrebbe calpestare i vostri sentimenti o rivelarsi menefreghista o sfruttarvi per il suo interesse (fosse anche affettivo) o manipolarvi dolcemente, etc… Mi riferisco a colui che fa del danno agli altri oltre che a se stesso.

Ciò nonostante, anche chi non ha borse sotto gli occhi può mentire ma, a causa dei suoi traumi passati, potrebbe subire differenti disturbi. Ebbene sì, passare una vita a raccontar bugie, non porta mai nulla di buono nemmeno al nostro fisico.

Chi ha borse sotto gli occhi cela una grande quantità di tristezza in cuor suo. È un insoddisfatto, probabilmente stressato e invidioso.

La vita gli ha sicuramente riservato un trattamento sovente poco carino ma, dal momento che siamo gli artefici e i responsabili della nostra esistenza, dobbiamo chiederci perché si è creata questa vita così angosciante e frustrante.

Se anche non credessimo a questo, volendo dare comunque la colpa agli altri, occorre focalizzare come prendiamo certi avvenimenti. Nel nostro interno cosa succede? Quanta resilienza abbiamo? Quanta voglia di pensare al positivo c’è dentro di noi? Quanto riusciamo a lasciar andare? Quanto siamo schiavi del fastidio, dell’ira, del disgusto, della sfiducia, dell’approfittarci, dell’essere disonesti e quant’altro?

LE LACRIME SONO IL SANGUE DELL’ANIMA (Sant’Agostino)

Banalmente, si potrebbe dire che chi manifesta queste sacche piene, ha due borse colme di lacrime che non sono fuoriuscite. E quanto danno stanno facendo a stare ferme lì.

Anche se non si sente ne il bisogno, ne’ la voglia di piangere e nemmeno se ne percepisce il motivo, occorre non cadere nell’errore dell’apparenza. Ad esempio, se tu manipoli gli altri con gentilezza, per un tuo scopo e al fine di ottenere quello che vuoi, ti senti sicuramente bene e per nulla triste. Pertanto, avverti più voglia di ridere che di piangere (apparentemente/mentalmente) e potresti trovare le mie parole inesatte o false. Quello che non capisci è che comunque, per stare bene te, stai sfruttando gli altri in un gioco meschino anche se educato e quasi amorevole. Significa che non sei in grado di stare bene da solo, soltanto grazie alle tue capacità e al tuo essere. In profondità, ti credi insufficiente a te stesso, un insicuro, un mediocre, uno che non è degno e questo sarà quello percepito dal tuo cuore, dal tuo animo più intimo, dalla tua natura che invece sbatte come un serpente ferito perché conosce bene la tua perfezione e la tua bellezza.

Questo era solo un esempio, ma quanta fiducia hai in te stesso? Quanta fede totale hai nella vita? Quanta armonia, alla fine dei conti, c’è dentro di te?

Prova a svuotare il sacco e prova a riempirlo di fiori, di belle parole, di pensieri entusiasmanti e di cose meravigliose; esse non occupano spazio.

Prosit!

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Il Miope – colui che vuol vedere il pericolo da vicino

IL PERICOLO È VICINO

Appena il rischio mi è accanto voglio poterlo vedere bene -.

Al miope, poco importa del mondo “lontano”, è come se lo dimenticasse, come se questo non esistesse, in quanto, tutta la sua concentrazione è focalizzata su ciò che gli è particolarmente prossimo. Convinto che tra quelle cose vicine può esserci il male, non serve a nulla mettere a fuoco la realtà discosta e vaga, non la teme, è “in là”, non se ne deve preoccupare. La sua energia serve a fronteggiare l’imminente danno che può colpirlo.

Infatti, le parti distanti da lui non le vede, ma a pochi palmi dal suo sguardo riesce ad osservare benissimo. Non gli sfugge nemmeno un granello di polvere. “Vedere bene” significa, indirettamente, riuscire ha capire quale arma è più adatta da poter usare in base al pericolo e assicurarsi così maggiormente la vittoria.

Il mondo gli fa in qualche modo paura ed è convinto, inconsciamente, di dover vivere con pericoli in agguato che gli arrivano addosso.

La vista, in generale, equivale al nostro modo di vedere la vita e, per il miope, questa visione è piena di timori e ansie anche se non se ne accorge. Per il miope gli occhiali sono una sorta di banda protettiva, così come le lenti a contatto, dietro i quali si cela ad aspettare il nemico, ad osservare l’orizzonte senza essere visto e possono diventare i migliori amici dell’individuo, come se fossero parte del suo corpo. Non se ne separa mai, soprattutto se le diottrie mancanti sono parecchie. Senza di loro si sente nudo, perso, vulnerabile e il famoso pericolo potrebbe così riuscire nel suo intento.

IO SONO IO, VOI NON SIETE ME

La miopia è causata da una non corretta focalizzazione dell’immagine sulla retina. L’immagine si pone davanti ad essa, anziché su di essa, e questo causa il vedere figure sfocate e non nitide. Il mondo appare come un miscuglio di macchie ovattate e poco si percepisce di ciò che è attorno. Ma, come dicevo, poco importa. L’importante è non far avvicinare nulla e non far entrare nulla in sé.

Una protezione molto elevata verso la propria persona e il suo intimo caratterizza il miope che, pur apparendo in alcuni casi “un libro aperto” nei confronti degli altri, sente di avere dentro cunicoli profondi che non si possono visitare e che l’altro non capirebbe.

E’ curioso sapere che il termine miopia deriva dal greco “myo” e significa “chiudere”. S’intende, con questo, descrivere il miope che per vedere chiude gli occhi strizzandoli come due fessure ma, la parola “chiusura”, può farci pensare a qualcosa di molto più intimo.

Una sostanziale preoccupazione nei confronti del futuro, verso il quale si proietta di continuo, lo accompagna costantemente e, spesso, cade nell’errore di credere che sia giusto solo il suo pensiero rispetto a quello degli altri.

Può essere introverso e capace di indossare maschere al fine sempre di proteggersi.

VIVERE IN COMUNIONE CON LA VITA

D’altro canto, però, un accenno sul vedere l’esterno così sfocato va fatto. Indica che il miope fatica a vedere oltre, ad avere una visione d’insieme, a vedere i bisogni dell’altro, non riesce ad osservare a livello olistico, questo sempre perché troppo concentrato su se stesso e sul mantenersi incolume.

Non è detto che queste caratteristiche possono appartenere tutte al miope ma, sicuramente, in alcune di esse, o anche in una sola, chi è vittima della miopia può riconoscersi e da qui migliorare.

Ci sono stati casi in cui la vista è migliorata, soprattutto con l’avanzare dell’età, e questi casi riguardano di più il sesso femminile dove la donna, andando a investigare, ha trovato una situazione familiare più gradevole e si è sentita più protetta, più agiata, o ha imparato a gestire meglio una famiglia che, all’inizio, come cosa nuova, le pareva un ostacolo insormontabile e pieno di difficoltà.

La donna si preoccupa (quasi) sempre di più rispetto all’uomo in questi ambiti e, spesso, nel momento in cui i figli crescono e le recano così meno apprensione, inizia a godere di più serenità.

Aspettarsi sempre il bello e avere fiducia nel processo vitale può essere un valido aiuto ma è davvero difficile perché il meccanismo che prende vita appartiene al nostro inconscio e non lo vediamo, non sappiamo nemmeno di averlo. Ci si può allenare però, cosa che consiglio in ogni argomento, ora che si conosce il perché, da – qui a lì -, non vediamo un tubo.

Prosit!

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Ho 40 anni e sono un pulcino

IN FONDO MICA MI DISPIACE

Guardando con gli occhi dell’amore niente appare brutto – (Meg)

Quando qualcuno prova a stabilire la mia età anagrafica sbaglia sempre, nel senso che nessuno mi da 40 anni dicendo che non li dimostro.

È vero che i caratteri fisiognomici o tratti somatici, i geni, la cura del proprio corpo (che mi trova pigra), etc… hanno la loro importanza ma, a parer mio, è vero anche (e forse molto più di tutto il resto) che conta come ci si sente dentro. Però…. cosa determina questo?

Io per prima rimango sbigottita quando penso di avere 40 anni e provo a ricontare per vedere se i calcoli sono giusti. Davvero! Dico sempre – 40?! Ma possibile? Allora ’78… ’88… ’98… perbacco! A momenti 41! Altroché! -.

Non è tanto questione del sentirseli o meno. Cioè, anche chi dimostra l’età che ha può sentirsi bene. Felice. Secondo me è più un fattore emozionale.

Un Maestro spirituale vi direbbe che: bisogna lasciare andare il passato, bisogna pensare positivo, bisogna fare respirazioni ogni giorno… tutte cose sacrosante e che condivido, ma continuo a dire che non è tutto.

VECCHI RICORDI

Ricordo che a 20 anni avevo coetanee che vestivano e si sentivano o si atteggiavano a quarantenni. Le scarpe da ginnastica, ad esempio, mi dicevano che una “signora” avrebbe dovuto riporle e usarle solo in casi eccezionali come durante un’ora di attività fisica. Ehm… io devo riporle ancora adesso…

Ma un grazie secondo me va anche a mamma e papà.

MAMMA E PAPA’

I miei genitori mi hanno responsabilizzata velocemente.

Ricordo che mamma mi mandava in Posta a compiere missioni impossibili alla tenera età di 10 anni. Non arrivavo nemmeno allo sportello per parlare con l’impiegata, la quale doveva sporgersi in avanti per vedermi. A 6 anni mi faceva lavare i piatti facendomi salire su uno sgabello dicendomi solo – Per togliere l’unto l’acqua deve essere calda -.

Papà invece mi addestrava in stile Bear Grylls. A 10 anni oltre a saper fare un telegramma ero anche in grado di uscire da un bosco dopo essermi persa, sapevo arrampicarmi ovunque come un gatto e iniziavo a riconoscere in cielo alcune costellazioni.

Allo stesso tempo però, mangiavo pane e coccole. Oh beh, anche qualche scapaccione, è ovvio! Ma, dopo 40 anni, ancora non mi chiamano con il mio nome. Per Madre sono “Pulce” e per Padre “Passerotto“. E mentre mia mamma ancora mi accarezza e struscia il suo naso contro il mio viso, mio padre, quando mi faccio male, mi dice porgendomi la mano – Passalo a me – intendendo il dolore. E poi finge che inizi a far male a lui quella parte. Beh sì, insomma, avete presente quella citazione:

I bambini credono che un piccolo bacio su un graffio possa farlo guarire. E ci credono perché si fidano di chi si prende cura di loro. Non è ingenuità, è fiducia incondizionata -. (Anonimo)

Ecco… devo essermi fermata a quella fase lì.

GLI OCCHI GIOVANI, ANCORA DA RIEMPIRE, DEL BAMBINO

Quello che sto per dire potrà sembrare retorico ma, a volte, mi trovo davvero a guardare il mondo con gli occhi di un bambino.

Mi stupisco per un fiore, potrei passare un’ora intera a giocare con un insetto, rido come un’abelinata (tipico termine ligure che indica simpaticamente una deficiente) e mi faccio le trecce.

Lo so, non sono normale, ma mi chiedo “Forse è anche per questo che sembro più giovane”. Non penso sia solo questione di genetica, capite cosa intendo dire? E nemmeno intendo dire di essere meglio di un altro. Soltanto osservare il perché, alcune persone dimostrano meno anni e altre di più.

È assolutamente vero che il lavoro, le preoccupazioni, la paura, la lamentela, la rabbia e molte altre situazioni negative rendono l’invecchiamento precoce, ma posso assicurarvi che non sono stata immune da tutto questo. Quindi sono arrivata alla conclusione che, forse, una delle questioni fondamentali, risiede nel fatto di come si prendono certe cose.

Ossia aspettarsi il bello, pensare al bello, immaginare il bello… che arriva. Ma dietro al termine “aspettarsi” c’è molto di più e ve lo spiego tra poco.

Spesso mi rendo conto che molte persone hanno davanti due strade ma scelgono sempre quella negativa. Sempre il pensiero più ostile, come a dire – Almeno non rimarrò deluso quando accadrà -. Però non è detto che accada e, soprattutto, ciò che fa invecchiare è l’attesa non sana di quella risposta. Se poi davvero non accade forse è perché deve accadere qualcosa di più bello ancora. Non sono una farfallina ingenua. So bene valutare le preoccupazioni ma sono anche convinta che la vita non ci voglia male e che abbia in serbo per noi il meglio. Occorre solo non remarle contro e permettere a quel meglio di entrare in noi. Che ne dite? Non potrebbe essere un buon metodo questo per rimanere giovani più a lungo? Secondo me si. Ma non è solo questo. L’attesa di cui parlo è qualcosa che va oltre e più in profondità e che ora proverò a dirvi.

LA BELLEZZA DELL’ATTESA

L’Universo è pigro – (Cit.) …forse perché sa che tanto è immortale, penso io. Ha tutto il tempo che vuole, là dove il tempo non esiste. Tsè!

Ciccio Pasticcio… se ci riesci tu che sei l’Universo posso benissimo riuscirci anch’io!

E allora cosa mi ha aiutata in tutti questi anni? Eh sì. La parola è questa: l’attesa.

La pazza corsa all’oro che la maggior parte delle persone effettua, “per arrivare prima”, non lo trovo un buon mezzo. L’arrivare per primo. Mi laureo subito, prendo immediatamente la patente, faccio 3 anni in uno, voglio quel modello che ancora nessuno ha, voglia fare quella cosa che per adesso solo in America…. Il bisogno dell’originalità che stressa. A volte si può aspettare. Non siamo sempre presi dall’acqua alla gola. E una volta passata l’ondata, resti più originale tu, che ancora non sei, rispetto a tutti quelli che già sono stati.

Ad aspettare non si diventa vecchi. Saper aspettare significa dire – Tanto non devo morire domani, ho tutto il tempo che voglio. Sono giovane -. Questo messaggio, col tempo, si manifesta. Diventa concreto permeando, di questo percepire, ogni cellula. Inoltre si collega alla “leggerezza”. E ve lo dice una che ha iniziato a lavorare a 13 anni e alla quale non è stato regalato niente (ci fossero malpensanti con la scusa pronta, eh).

Vi siete mai accorti che gli anziani fanno tutto di corsa se non sono persone “spirituali”? Come se, appunto, dovessero morire da lì a poco. E infatti, inconsciamente, questo pensiero incombe su di loro. In fila devono passare per primi, si alzano alle cinque dicendo di avere mille cose da fare, quello che puoi fare oggi non aspettare a farlo domani, si buttano in mezzo alla strada per attraversare cercando di bloccare le auto con la sola imposizione delle mani… io dico, sei in pensione, santa persona, magari quella giovane mamma che ha lasciato il bambino in macchina per far veloce e deve andare a lavorare ha più fretta di te, falla passare! E invece no. Ma è normale, li capisco. Perché questo è alla fine: convincersi che il tempo non solo non esiste ma soprattutto non è il nostro padrone.

Prosit!

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Perché parliamo di Follia come se fosse una cosa Magica

A.A.A. FOLLIA CERCASI

Abbiamo letto spesso varie citazioni riguardanti i folli o la follia. In ultimo, quella di Steve Jobs che immagino tutti conoscete – Siate affamati, siate folli -.

Ne abbiamo fatto una sorta di motto prediletto, volendo andare un po’ contro corrente e comprendendo che, alla fine, molte delle persone considerate “matte” in altri tempi, erano in realtà pionieri di visioni che oggi andiamo ricercando, sgomitando tra schemi mentali e oppressioni che ci ingabbiano.

Ci siamo così ritrovati a voler essere folli. A voler passare come folli, come originali, irrazionali, unici… ma se mentre la maggior parte della gente collega il folle al pazzo, a colui cioè che non sta alle regole, che non vive guidato da schemi e che abita un mondo tutto suo, è bene comprendere che cosa significa anche, e più in profondità, essere folli. Perché, al di la’ di tutto quello che si può credere su Alda Merini (classico esempio) sarebbe davvero bello se tutti riuscissimo ad esserlo! E qui vi porto a delle mie personali riflessioni, forse un po’… folli.

La parola “folle” deriva dal latino “follem” e significa “pallone”.

Il pallone è un oggetto rotondo che rotola, rimbalza e va via. Può fare salti anche abbastanza alti, oltrepassando ostacoli e potendo così: VEDERE OLTRE.

Vi sarà sicuramente capitato di sentir pronunciare la frase – Avere la testa nel pallone -. Lo si dice a chi sembra confuso, disattento, assente… un folle in pratica! In quel momento più che altro.

DAL GELATO AI PASCOLI INCONTAMINATI

Il folle è proprio colui che riesce a vedere cose che altri non vedono. Un esempio di folle? Un bambino! I bambini sono tutti folli! Come simpaticamente racconta anche il Dottor Mauro Scardovelli in un suo video, un giorno, a un gruppo di bambini venne fatto vedere un cono gelato e venne chiesto loro – Che cosa vedete? -.

Naturalmente, dapprima, i bimbi risposero in coro – Un gelato! – ma quando gli venne chiesto ancora – E cos’altro vedete? – ecco che la loro fantasia iniziò ad accendersi, lentamente, ma mai fuori luogo.

Nessuno nomino’ alieni o sottomarini, ma iniziarono a parlare di gusti… e poi di latte… e poi di mucche… e poi di un prato verde…. andarono oltre, molto oltre, ma arrivando al principio. Al principio di tutto. Al principio di quel semplice, banalissimo gelato.

Ora, se dentro di me porto ad esempio il demone dell’invidia, sarà normale incontrare persone invidiose. Qualcuno dovrà pur farmelo vedere e dovrà pur farmi capire quindi come vivrei meglio senza quel mostro al mio interno.

Sarà così che, anziché prendermela con chi mi invidia, fermandomi lì, proverò anche a guardare oltre. Cosa mi sta suggerendo il comportamento di questa persona? Cosa rispecchia di me? Mi farò diverse domande, andando oltre, appunto. Oltre la banalità e quel che sembra, ma arriverò al principio, cioè dentro di me, dove tutto nasce e tutto si crea. Entrerò nella mia matrix (“matrice” che dal latino significa “madre – utero”). Entrero’ nell’inizio.

In questo modo avrò un sensore (in quanto dire pensiero è sbagliato perché riguarderebbe la mente) animico, cioè dell’anima. Infatti, quando si dice di guardare oltre, si dice anche, utilizzando dei sinonimi, di guardare: con gli occhi dell’anima, o di Dio, o di un bambino.

VIVERE COME SE’ SUPERIORE

Avete occhi ma non vedete, avete orecchi ma non sentite! – (Gesù)

Praticamente, avere un senso animico è  ben diverso dall’avere un pensiero duale e cioè che divide, mentre invece dobbiamo osservare un tutt’uno, perché è il Tutto e l’Uno. Solo.

Perché c’è differenza dal vedere e il percepire, dal sentire e il percepire, dal riflettere e il percepire. Dobbiamo essere. Accogliere. Essere con la pelle, con gli occhi, con le mani, con le orecchie, con ogni cosa… come un folle.

Un folle vive pienamente ciò che percepisce. Non nasconde, come chi non è folle, le sue emozioni. Il suo corpo stesso si muove in maniera diversa. Le espressioni del viso, la sua voce solitaria. Il folle non ha maschere e capisco bene che le maschere possono anche essere utili, a volte, ma non lo sono nei confronti di una personale evoluzione soprattutto perché, molto spesso, le maschere le usiamo addirittura con noi stessi.

La follia è magica perché ci avvicina al divino, ci permette di vivere ciò che siamo realmente, ci permette di essere bambini. Senza “immondizia” sopra i nostri cuori ad affaticarci il respiro.

Togliendo tutto ciò che ci “sporca” non può che divampare la magia che già è in noi e che magia non è, ma così la chiamiamo perché ci appare stupefacente a confronto di quello che siamo obbligati ad affrontare ogni giorno.

Ecco perché dovremmo davvero essere tutti folli. Almeno un po’.

Prosit!

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Io che non piango mai sono arrabbiato con mia madre

IL VALORE DELLE LACRIME

Fin da quando veniamo al mondo, il principale mezzo che abbiamo per attirare l’attenzione della mamma è quello di piangere. Il pianto ci permette di farci sentire, o di mostrare un disagio attraverso le lacrime. Questo mette in allerta il genitore che provvederà immediatamente a prendersi cura di noi. E’ la manifestazione di un bisogno.

Se siamo abbastanza furbi, continueremo ad utilizzare questo metodo anche crescendo, almeno finché non veniamo scoperti, frignando in modo teatrale per ottenere quello che vogliamo. La nostra tristezza dovrebbe smuovere i cuori di compassione e, secondo i nostri calcoli, anche un solo – Cosa c’è? – dovremmo ottenerlo. Purtroppo però, a volte, non funziona proprio tutto così. Qualcosa non va come avremmo voluto e, senza rendercene conto, dobbiamo iniziare a pensare a qualche altra soluzione.

Ci sono adulti che non piangono mai e parlo di adulti perché occorre maturare all’interno alcune emozioni.

IO NON PIANGO MAI

Questa prerogativa appartiene soprattutto al sesso maschile ma anche molte donne evitano il pianto e la sua manifestazione. Il non piangere o il non riuscire a piangere, può essere provocato da un disturbo fisiologico come una stenosi o un’ostruzione parziale o completa ai dotti lacrimali, oppure per una scelta più o meno consapevole, a volte figlia di un’educazione ricevuta, a volte no. In entrambi i casi, secondo la Psicosomatica, alla base esiste un conflitto con la madre che ora proverò a spiegare.

Quando un bambino non si sente sufficientemente considerato dalla propria mamma, piano piano, crescendo, inizierà a smettere di piangere. Sembra quasi un evitare uno spreco di energie che risultano inutili. Nella parte più profonda, e qui c’è il dramma, risiede però una sorta di collera nei confronti di quel genitore, una collera non elaborata e non trasmutata in emozioni migliori. Infatti è un po’ come se, l’individuo, per pura difesa personale, dicesse: – Non vuoi ascoltarmi? Bene, allora io ti dimostrerò che posso tranquillamente farcela anche senza di te e senza il tuo aiuto. Me la cavo da solo. Come sarebbe? Prima mi metti al mondo e poi non mi consideri? E allora della tua considerazione non me ne faccio nulla -.

Le persone che durante l’infanzia sono state spesso sole o si sono dovute sbrigare a crescere velocemente, è perché hanno avuto madri che poche coccole gli hanno fatto. Non parlo solo di madri anaffettive ma di madri che, per qualche ragione, non avevano tempo. In base a questo occorre comprendere che non esistono colpe ne da parte del genitore, che probabilmente non l’ha fatto apposta e non si è accorto di nulla, preoccupandosi di cose forse per lui più importanti come il guadagnare per sfamare il proprio figlio, ne’ da parte del bambino che semplicemente pretendeva un diritto naturale che gli è stato negato e ha così creato una sorta di scudo per difendersi dal dolore che provava per quell’esclusione.

NESSUNA COLPA… SOLO QUALCHE CONSEGUENZA

Non ci sono colpe ma ci sono comunque rimedi per riuscire a vivere meglio. Quelli scoperti senza l’autosservazione sono però solitamente deleteri. Spesso accade che una madre si rende conto dei propri “errori” in tarda età e inizia a nutrire un senso di colpa che non porta a nulla di buono. Mentre il figlio, oltre a non piangere mai e trattenere, potrebbe (o desidererebbe) inconsciamente andare alla ricerca dell'”amore perduto”, passando attraverso duecentocinquanta donne (se è maschio) e vivendo soltanto tormenti o delusioni da molte relazioni, laddove la colpa non sarà mai la sua ma sempre della compagna-madre.

Avrà bisogno di un amore che non saprà ricambiare. Avrà bisogno di calore, di affetto sincero e sarà avido di unicità. Pretendera’, in cuor suo, di essere al centro dell’attenzione del partner pur ammettendo l’esatto contrario.

E pensare che con un bel pianto si risolverebbe tutto! Ok, no, non scherziamo. L’argomento è serio.

Piangere può far bene soprattutto quando, al proprio interno, esiste questa rabbia soffocata. L’acqua (lacrime) spegne il fuoco (ira) e, inoltre, in questo caso, appare come la manifestazione fisica del demone che, in parte, esce da noi, va via, ci abbandona perché siamo riusciti a trasmutarlo! Che bellezza!

Gli occhi secchi, di chi non piange mai, sono occhi senza vita. Sembra esagerato questo concetto ma serve a far capire quanta sofferenza c’è dentro ad una persona che nutre un conflitto (magari inconscio) nei confronti di chi lo ha messo al mondo e che avrebbe dovuto dargli l’amore più grande e più puro come fondamenta di quell’esistenza.

Un figlio è come una specie di prolungamento della madre, in particolar modo fino ad un certo periodo di vita, e quando questo stesso prolungamento non riesce a nutrirsi dalla pianta madre, immaginatevi come possa non sentirsi “morire”. Invece riesce a vivere, con tutte le sue forze. Si riempie di orgoglio, non vuole lasciarsi andare e se da grande apparirà un cinico orgoglioso, beh… com’è che dicevano gli Indiani d’America? – Non giudicare il tuo vicino finché non avrai camminato per due lune nei suoi mocassini -.

LE LACRIME DEL PERDONO

Dentro ognuno di noi c’è una battaglia in corso, per questo ci vuole rispetto. Sempre.

Si può anche scegliere di non piangere ma occorre chiedersi se lo si fa solo per sembrare dei duri che non hanno bisogno di niente e non vogliono mostrarsi vulnerabili o deboli, oppure per altri motivi. L’ho detta in breve ma si dovrebbe capire cosa intendo.

Le persone che non piangono mai sono solitamente individui che vogliono avere sempre ragione, abbastanza orgogliosi, che odiano essere colti in fallo e sono pronti a negare l’evidenza. Per questo trovo importante osservarsi, perdonare e perdonarsi. Perché suppongo non sia sereno vivere così.

Una mamma può essere innocente o colpevole ma tu se puoi perdonala. Non per fare un piacere a lei, solo perché è tua madre, ma per donare a te stesso sollievo e armonia. Distaccati da questo rancore e, da qualche parte, troverai l’amore che da quando sei nato ti manca.

Prosit!

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Quella Tuta che chiamiamo Corpo

IO E IL CORPO – UNA COSA SOLA

Siamo abituati a pensare di essere un semplice corpo. Crediamo di essere un semplice corpo e viviamo come tale. Ci vediamo fisicamente, muoverci nel mondo, con i nostri limiti segnati dalla pelle che ci riveste e, oltre lei, inizia immediatamente la realtà esterna. Non ci siamo più noi, c’è “il fuori”. Siamo abituati e convinti di questo. Persino la mente la definiamo come una specie di parte del corpo.

Fin da quando eravamo piccoli siamo stati educati a dire – Sto male -, – Ho male -, – Mi fa male – ogni volta che provavamo un qualsiasi tipo di sofferenza fisica. Non abbiamo mai detto – Il mio corpo sta male – o – Il mio corpo si è fatto male – come se fosse un qualcosa di distaccato da noi. Questo avrebbe potuto aiutarci molto anche nei confronti delle angosce emotive che ci impiegano un secondo a diventare fisiche: respirazione affannata, pianto, attacchi di panico, senso di oppressione sul petto, mal di testa, nausea…

Questo non significa non essere sensibili al dolore, al caldo, al solletico, etc… siamo dotati di neuroni, di corpuscoli (Ruffini, Krause…) di cellule apposite atte a proteggerci, ad avvisarci, ma viviamo queste situazioni come se fossero nostre e non di un corpo che dovrebbe essere visto, semplicemente, come una tuta apposita che dobbiamo indossare per trascorrere questo tempo terrestre. Sulla luna abbiamo bisogno di un apposito abbigliamento. Se andiamo sott’acqua abbiamo bisogno di un apposito abbigliamento. Se andiamo sui ghiacciai abbiamo bisogno di un apposito abbigliamento. Ebbene, non ci rendiamo conto che anche per vivere i nostri giorni su questo pianeta abbiamo bisogno di un apposito abbigliamento. Il corpo.

Non ci osserviamo, come se fossimo (anche) un’entità esterna, guardandoci. Guardando quel corpo e dicendo – E’ mio ma non sono io. Io non sono lì -.

PALOMBARI TERRESTRI

Perché noi non siamo il corpo. Per la precisione il corpo è soltanto una parte di noi. Importantissima, ma è solo un equipaggiamento.

In effetti non è separato da noi, siamo un tutt’uno, e con esso compiamo la nostra trasmutazione ma quello che intendo dire è che, all’occorrenza, possiamo uscire da esso. Non mi riferisco a viaggi astrali o cose simili ma semplicemente che se riuscissimo di più ad identificarci con l’anima anziché con il nostro fisico e vivessimo come anima la nostra vita, comprese le emozioni subite, esse apparirebbero nettamente differenti. Innanzi tutto perché “subite” non lo sarebbero più. Saremo noi a governare loro e non loro a governare noi.

A farci soffrire è infatti l’attrito che la mente ci obbliga a compiere davanti agli avvenimenti che ci accadono. L’anima va oltre. Vede con altri occhi e soprattutto riconosce la bellezza dell’insegnamento. A lei, gli schemi mentali non interessano. Non sa nemmeno della loro esistenza.

Non avete occhi per vedere (avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?) – (Gesù)

Il problema sta nel fatto che ci riconosciamo come corpo ma nei confronti dell’anima pensiamo invece essere una parte in più che abbiamo. Come un accessorio. Il portafoglio. Chi non ha un portafoglio? Tutti ne abbiamo uno. Un qualcosa che un domani ci permette, in qualche modo, di giungere nel tanto ambito Paradiso visto che il corpo andrà sotto terra. Oh! Bene. Ora che sappiamo che un accessorio nostro andrà in cielo siamo molto più sereni. …E se tu sei cattivo e un’anima non ce l’hai, ti consiglio di andare a comprartene una altrimenti non ci vai, lassù, tra le nuvole...

Quello che si sente dire infatti non è – Sono anima – bensì – Ho un’anima – ed è sbagliato.

Pensiamo l’esatto contrario di quello che è, dando posizioni e meriti a cose che dovrebbero stare un passo indietro. Questo accade perché l’essere umano ha sempre e costantemente bisogno di vedere, di toccare, di constatare. La paura della quale è intriso non gli permette di abbandonarsi alla fede/all’amore. L’immagine che abbiamo di noi è quella di una testa, due braccia, due gambe e stop. Non consideriamo minimamente di essere luce, di essere energia, di essere in realtà una nuvola fluttuante e informe, molto grande, che si sposta per il mondo e agisce attraverso un continuo movimento vibrazionale delle molecole. E cos’è l’energia? L’energia è movimento.

Non consideriamo di essere grandi quanto la stanza nella quale siamo, e qui mi fermo per non essere mal compresa, ma… altro che stanza! Un passo alla volta però. Provate ad immaginare quindi come potrebbe essere una vita passata sotto a quest’ottica. Se solo potessimo vederci come l’Universo ci vede, una volta scoperto ciò che realmente siamo, ce ne daremo tante ma tante che Suor Nausicaa a confronto toglieva la polvere dai petali di rosa.

FATTO A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA

Il corpo è lo strumento principale che possediamo per trasmutarci, ossia per riconoscere che cosa realmente siamo e per mostrarci che, alla fine, ben poco abbiamo a che fare con lui. E’ proprio nel corpo, e attraverso il corpo, che modifichiamo le nostre vibrazioni fino a compiere una vera e propria trasformazione del movimento molecolare potendo così mandare frequenze diverse da quelle che emaniamo e in grado di agganciarsi o incontrarsi con quelle universali.

E’ grazie al corpo che passiamo da uno stato di “sonno permanente” ad un risveglio totale che ci permette una connessione completa con l’energia cosmica, in quanto già siamo energia cosmica ma non lo riconosciamo. E’ ottenere la potenza dell’Universo laddove, l’Universo, vedendo come invece ci comportiamo, si martella esso stesso i gioielli di famiglia gridando nell’atmosfera – Dove ho sbagliatooo???!!! -.

Serve percepire e non capire. La logica e la razionalità appartengono al Tutto ma non sono il Tutto. Serve mettere da parte la mente (che mente) schiava della nostra situazione terrestre e agire d’intenti. Serve non confondere, usare il nostro “sentire”. Comprendere (prendere con – prendere in sé) e quindi accogliere, sentire dentro.

Non finiamo là, dove il nostro strato corneo epiteliale smette d’esistere. Immaginatevi un alone ampio, grande, che ci avvolge e si muove attorno a noi. Immaginate di contenere al vostro interno le altre persone, gli alberi, i luoghi, le sensazioni, le gioie. Questo siete. Scintille luminose. Piccole parti di un’intelligenza senza fine che vi ha portato sin qui dotandovi di un corpo, cioè di qualche atomo, perché in questo particolare ambiente, la condizione obbliga ad averlo.

Prosit!

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