Quel pazzo di Hamer

E’ piccolo il libro di Giorgio Mambretti e Jean Séraphin intitolato “LA MEDICINA SOTTOSOPRA”. Appena 117 pagine e forse, per i primi approcci a tali argomenti, bastano e avanzano.

E’ un libro che parla di un modo nuovo, totalmente nuovo, di guardare una malattia o un malessere.

E’ un libro che trasforma persino il termine che ho appena citato. “Malattia” diventa “Benattia” andando a scardinare alcune memorie arcaiche che ci appartengono. Perché si sa, sono proprio loro, le memorie, a  creare tutto in noi. Sono i pensieri, consci e inconsci, a formarci.

L’uomo è quello che mangia! – diceva Ludwig Andreas Feuerbach, filosofo tedesco copiato poi da Naboru Muramoto nel suo libro “IL MEDICO DI SE STESSO”. Frase che ho sempre condiviso. Ma mia madre aggiungeva anche – L’uomo è quello che mangia… e anche quello che pensa! – e mica solo lei lo diceva. Tutti i più grandi maestri del passato, spirituali e di scienza, di fama mondiale, lo hanno detto conoscendo bene la Legge vibrazionale di Risonanza. La proiezione materiale del nostro pensiero.

“LA MEDICINA SOTTOSOPRA” è un libro che parla di un medico. Una figura ambigua lo si potrebbe definire. Per molti un ciarlatano radiato dall’albo, per altri un salvatore: si tratta di quel pazzo di Ryke Geerd Hamer.

Chi mi segue da tempo sa bene che non ho mai avuto intenzione di giudicare all’interno dei miei scritti, ne’ di schierarmi verso un movimento piuttosto che un altro. Mi piace semplicemente riportare, accendere luci e dire il mio parere. Quindi, senza lasciarvi troppo sulle spine, vi dico subito che a Hamer credo. Non m’interessa credere in lui come persona, può aver fatto la qualunque. Non mi interessa nemmeno credere in Gesù, il quale potrebbe anche non essere mai esistito in carne e ossa. Accolgo semplicemente un messaggio e provo a conoscerlo. Se mi rendo conto che può essere un buon insegnamento lo faccio mio. Lo metto in pratica.

Ma qual è il messaggio di questo amato e detestato medico?

Hamer nato a Mettmann nel 1935 e morto a Sandefjord nel 2017 dopo una vita di condanne, fughe, giorni passati in carcere e chi più ne ha più ne metta, ha cercato di dare un volto nuovo alla malattia e alla Medicina stessa. Quella occidentale soprattutto. In realtà non ha scoperto niente di nuovo ma andiamo con ordine… Si è anche prodigato nel dare soluzioni utili a chi ne aveva bisogno. Si possono tranquillamente leggere, su molti siti, gli strambi rimedi di ortica e ricotta che forniva a gravi malati di cancro… E già… su molti siti ma non su tutti.

Ad una più attenta supervisione e tralasciando le soluzioni considerate “barbine” dell’impavido medico, si può notare bene come il focus andrebbe fatto sul suo modo di osservare la malattia. Hamer infatti sosteneva che la malattia non è solo la realizzazione di un colpo di sfortuna o una disavventura genetica, bensì un conflitto interno non risolto che si manifesta attraverso un malessere del corpo più o meno gravemente. 

Questo tema è ben conosciuto dalla biologa e psicoterapeuta Claudia Rainville, madre della Metamedicina, e dall’insegnante Louise L. Hay. Vi consiglio di leggere tutti i loro libri.

Conflitti interni non risolti… beh, perbacco, questo è interessante. E se serbasse in sé una verità? Una verità che diventa – mia – non più di Hamer, cioè che dona – a me – una sorta di insegnamento.

In pratica, mi stanno dicendo che se soffro di Sinusite (come ho anche già scritto) non è solo perché ho preso freddo. In effetti tutti prendono freddo e no, non è ereditaria. Infatti sono l’unica in famiglia a soffrirne. E’ perché in realtà, sono vittima di una situazione/persona che non sopporto ma sono obbligata a tollerare. Tant’è che posso soffrire di questo disturbo per due o tre anni nella mia vita ma né prima ne’ dopo ne ho sofferto o ne soffro. La cosa inizia a farsi interessante.

Da dove nasce tutto questo? Nei nostri tempi recenti (in quanto dopo aver fatto, per anni, lunghe ricerche ho scoperto che certe teorie erano già più che approvate in luoghi, popoli e tempi antichi; per questo dico che Hamer, in realtà, non ha scoperto nulla di nuovo) nasce proprio da un evento che il dottor Hamer ha subito e gli ha cambiato la vita in tutti i sensi.

Il figlio di Hamer, il diciannovenne Dirk Hamer, venne colpito ad una gamba da un colpo di fucile sparato a quanto pare (ma il “quanto pare” si potrebbe tranquillamente togliere) dal Principe Vittorio Emanuele di Savoia da una piccola barca al largo dell’Isola Cavallo in Corsica. Vittorio Emanuele, che al momento del fatto era ubriaco, ha sparato diversi colpi contro alcuni suoi ospiti accusandoli di avergli rubato un gommone. Uno di questi colpi, sparati alla rinfusa, penetrò la gamba di Dirk che in seguito andrà in gangrena. Dopo un calvario durato circa quattro mesi, vari interventi, emorragie e infezioni che non guarivano, il giovane ragazzo morì lasciando un profondo dolore nel cuore dei suoi genitori e i suoi tre fratelli. Come a voler rincarare la dose di angoscia, pare anche che il Principe Vittorio Emanuele, dopo essere stato assolto a processo per mancanza di prove (era il 1978 e venne condannato solo per porto abusivo di armi, quindi la sua pena fu lieve) si sia persino vantato con un amico di averla “fatta franca”. Un po’ come a dire “oltre al danno, la beffa”. Tutto questo causò nel dottor Hamer un rancore così grande, una così forte rabbia, una così intensa voglia di vendetta che poco dopo gli diagnosticarono un tumore (un carcinoma) ad un testicolo. Anche la moglie di Hamer, Sigrid Oldenburg si ammalò di cancro e morì poco dopo.

Un momento del processo a carico di Vittorio Emanuele di Savoia accusato di omicidio volontario del giovane tedesco Dirk Hamer, Parigi, 1991. ANSA

Questa nuova visione della malattia citata in dottrine come la Psicosomatica, spiega che il tumore viene formato dal rancore. Colui che è rancoroso, non è da vedere come una persona – cattiva – come i nostri schemi mentali ci insegnano. Provare rancore significa anche, semplicemente, avere rimpianti, rimorsi, sopportare in continuazione situazioni che ci provocano profonda insofferenza e sentirci impossibilitati a cambiare le cose… Anche la persona più buona del mondo può provare rancore, magari proprio per se stessa, perché ogni mattina si guarda e non si piace, perché viene trattata come uno zerbino, perché non riesce a reagire, perché non è riuscita ad avverare i suoi sogni… Oppure, ovviamente, si può provare rancore nei confronti di un fatto particolarmente triste che ci è accaduto nella vita. Si può provare rancore inconscio verso un genitore dal quale si desiderava solo amore, si può provare rancore verso un Governo vessatore, verso un lavoro che non ci piace ma dobbiamo fare per poter vivere, mantenerci. La mancanza di una persona cara come un figlio, la non-accettazione di quella perdita e soprattutto il modo in cui quella perdita è avvenuta, può farci provare senso di rivalsa, sofferenza, ingiustizia, collera… sono tutte emozioni che vanno a nutrire il rancore, un sentimento più sopito, più profondo e nascondo, difficile da riconoscere ma assai grande e potente.

Ragionando, il dottor Hamer, ha iniziato a farsi delle domande. Non poteva lasciare i tre figli rimasti senza un fratello e ora senza nemmeno la madre. Non poteva morire anche lui. Doveva a tutti i costi far qualcosa. Doveva guarire. Suo padre, Heinrich Hamer, Pastore Protestante, lo introdusse a studi spirituali e, infatti, Hamer, oltre ad essere un medico era anche un teologo. Iniziò a mettere insieme le sue conoscenze, ad unire, anziché dividere, la scienza dalla spiritualità in un tutt’uno. Lui… era un tutt’uno.

Era proprio dai suoi testicoli che Dirk aveva preso vita. I testicoli simboleggiavano, senza ombra di dubbio, la sua paternità verso quel figlio perduto. Un figlio che, Hamer, non era stato in grado si proteggere secondo il suo – senso di colpa -. I testicoli sono l’emblema del maschio, del creatore, della forza, della protezione, dell’azione, di tutto quello che è maschile. E’ in loro che si forma il testosterone.

Claudia Rainville spiega che un problema ai testicoli può indicare un disturbato vissuto della propria mascolinità oppure una tristezza profonda nei confronti della propria paternità. Il senso di colpa nei confronti di un figlio, che può nascere per svariati motivi, può essere così forte da provare inconsciamente il desiderio di autodistruggerci. Addizionando a questo, come in tale caso, la tristezza incredibile per la grave perdita, tutto ciò diventa un conflitto massiccio dentro di noi, o meglio, dentro un padre. Un nodo duro, doloroso: il tumore.

Convincendosi sempre di più che il suo problema ai testicoli derivasse dal dramma vissuto, Hamer, capì presto che doveva ribaltare dentro di lui la situazione, ossia le emozioni provate. Se a far nascere il tumore furono emozioni di rancore, senso di colpa, vendetta, rabbia, frustrazione, etc… doveva allenarsi a provare l’esatto contrario. Doveva prima di tutto perdonarsi. Amare. Amare qualunque cosa. Amare persino la vicenda stessa. Doveva trasformare l’ingiustizia in giustizia sacra, la vendetta in perdono (per-dono, fare un dono a se stesso) la rabbia in pace, la sofferenza in accettazione. Doveva farlo per lui e per i suoi figli ma… col tempo, dopo aver visto che tutto questo funzionò, decise di farlo per l’intera umanità. Passando questo messaggio al mondo.

Le sue teorie, nonostante lo fecero guarire dal tumore, non avevano però alcuna valenza scientifica e vennero considerate pericolose dalla medicina. Si addebitano ad Hamer centinaia di morti. La scienza calcò pesantemente la mano con – …centinaia di morti innocenti che avrebbero potuto guarire se non si fossero affidati al metodo di Hamer… -. Elenca un bel numero di queste morti ma non le guarigioni, perché anche quelle ci sono state. Ne descrive solo i buffi rimedi e quant’altro.

In altri luoghi, però, si può notare come la casistica di guarigione di malattie considerate degenerative sia stata così impressionante da far vacillare gli edifici della Sanità.

Hamer ha fatto errori? Sicuramente! Ha detto cavolate? Sicuramente! Ma ha anche esposto un concetto.

Hamer spiega, come a livello di tensione o rilassamento della fase simpaticotonica o vagotonica del neoencefalo e del paleoencefalo, ci può essere un’evoluzione o una riparazione del conflitto.

Ricordate quando vi parlai del fatto che siamo formati da ormoni? Gli ormoni, o i neurotrasmettitori, vengono secersi dalle nostre ghiandole in base alle emozioni provate e vanno nel sangue, il quale va a nutrire tutto il nostro corpo. In base a cosa contiene il sangue nutrirà di conseguenza i nostri organi, le nostre arterie, tutto. Vi ricordate anche di quando vi dissi che emozioni negative “induriscono” (tensione) persino le molecole del nostro DNA che resta quindi compresso? Ecco, per Hamer, sarei stata una buona allieva.

Ma questo non mi interessa. Non mi interessa pendere dalle sue labbra, ne tantomeno pensare a lui come a un Dio che non sbaglia mai. Sono dotata di una testa e la uso, almeno dove riesco. Una cosa però è inequivocabile: ha fatto tutto questo per salvare se stesso e gli altri. Ha cercato di espandere questo insegnamento. Pensate davvero che lo abbia fatto per avere morti sulla coscienza? Per avere fama? Quella fama che lo ha obbligato a scappare, a nascondersi, a passare giorni in carcere, ad essere additato come un impostore? Un mistificatore? A non poter più svolgere la sua professione? Può anche essere… D’altronde, Oscar Wilde diceva – Di me… Parlarne bene o parlarne male non importa, purché se ne parli -.

Ho messo alla prova le teorie di Hamer su me stessa. Con il mio corpo. Mi occupo di Alchimia Interiore, per cui, il suo insegnamento è stato condito anche da altre arti che conosco e pensare di poter guarire attraverso un metodo più energetico o spirituale che dir si voglia beh… è possibile. Ci sono stati momenti in cui ho dovuto ricorrere, come aiuto, ai metodi della nostra medicina, che ho sempre ringraziato nei miei articoli precedenti. E’ normale. Non si può pretendere di arrivare a fare un lavoro così eroico dall’oggi al domani. Non si può pensare di riuscire a conoscere il nostro subconscio nel giro di due giorni. La paura stessa, nei confronti di quella malattia che ci ha fatti vittime, ci blocca, nonostante la nostra fermezza di voler procedere in tal senso. Sono le nostre memorie e sono più potenti di noi, ci conoscono da quando siamo nati.

Ciò che è importante fare è avere un interessamento verso questo modo di osservare il disturbo perché, quantomeno, si può migliorare di moltissimo:

1) si possono prendere meno farmaci

2) si può guarire a monte e non a valle, dalla sorgente… e quindi sradicare quel conflitto in modo che il malessere non arrivi più, anziché farlo tornare di tanto in tanto (secondo di che malessere si tratta)

Sciogliere il conflitto, in pratica, evitando così di secernere in continuazione determinati ormoni visti i traumi subiti in passato.

Quella che noi chiamiamo – malattia – è un rimedio che il cervello fa entrare in azione attraverso un programma biologico per la sopravvivenza dell’individuo. Il cervello non fa differenza tra un qualcosa di reale e un qualcosa di immaginario. Se continui a dire frasi come – Questa situazione non la digerisco! Questa cosa mi è rimasta sullo stomaco! Quella persona non la mando giù! – e provi davvero questi stati d’animo, ecco che il tuo cervello cercherà il modo di secernere nel tuo stomaco più acidi, come l’acido cloridrico che ha un potere digestivo molto potente, per poterti permettere di digerire. Da qui, tutta questa emissione di sostanze acide, possono far insorgere: bruciori di stomaco, cellule tumorali, ulcere.

Continuare a prendere il Gaviscon o il Maalox (ringraziamone l’efficacia in caso di bisogno, per carità) ti aiuta ma non risolve il conflitto alla radice. Era infine questo il messaggio di Hamer, le soluzioni che il tuo cervello realizza. Messaggi… come vengono chiamati dalla Rainville in “OGNI SINTOMO E’ UN MESSAGGIO”, un suo bellissimo libro.

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Ma tutto ‘sto casino per una mela?

In qualche modo dovevano pur giustificare la vita in schiavitù che da sempre ci hanno obbligati a fare, che ancora oggi conduciamo, e il perché non meritiamo l’Eden promesso ma, per conto mio, avrebbero dovuto trovare un motivo più grave e valido. Come abbiano potuto campare, per così tanti anni, su una motivazione ridicola come quella della mela colta, disobbedendo a Dio, rimarrà un mistero per l’eternità presumo.

Voglio dire, d’accordo che a contare è il principio e non il frutto proibito, semplice emblema di discordia, ma un Padre buono, amorevole e che soprattutto perdona sempre, come può incazzarsi così per un tradimento che ha proprio l’aria del dispettuccio infantile? In particolar modo, come può portare tutto questo rancore per così tanti secoli?

Conoscerete tutti l’argomento del quale sto parlando e anche dopo averlo pompato, per renderlo più grave, con indicazioni del tipo: avevano tutto quello che volevano, non dovevano disobbedire, non dovevano cedere alla tentazione, etc… equivale al bimbo che ruba la marmellata nonostante non gli manchi nulla e la mamma gli proibisce di toccarla.

Ma, come ripeto, dovevamo tutti essere macchiati di peccato, a partire da quello capitale, perché due nostri predecessori hanno avuto la brillantissima idea di assaggiare una mela. Frutto che, negli anni, acquistò una sua rivincita divenendo quello che – se mangiato una volta al giorno toglie il medico di torno -.

Dio, però, non è un dottore e questo gesto lo ha riempito di offesa e odio verso gli uomini (proprio come un uomo… che coincidenza!).

Ero felice, da bambina, nel pensare che tra me e questo Dio severo c’era mio papà (quello in carne e ossa) a fare un po’ come da intermediario e paciere, il quale, se anche avessi rubato un frutto, al massimo mi avrebbe fatto una romanzina di mezz’ora.

Meno male che non sono nata a quel tempo e forse fu per questo che non mi piacque mai essere una “prima donna”. Quell’imprecazione classica, a me dedicata – Porca Meg! – (Porca Eva) poi, non l’avrei potuta sopportare.

Fatto sta che bisogna ammettere il fascino che si cela dietro a tutto questo. Dobbiamo dire che sono stati proprio bravi, perché se non diciamo che sono stati bravi loro, l’unica cosa che rimane è affermare che siamo stati noi dei veri tontoloni all’ennesima potenza.

Con una sciocca favoletta sono riusciti a piegare l’umanità intera al suono di un’unica voce che conteneva diversi messaggi: devi obbedire (sei un servo), devi saperti accontentare (non vali molto), la pagherai cara (occorre punire e vendicarsi), sei un peccatore (un essere indegno), devi accettare la tua pena (non puoi ribellarti), sei un debole (non hai alcun potere), quello che fai è irreparabile (‘zzi tua), non verrai perdonato (non meriti, devi vergognarti), il giudizio prima di tutto (nasconditi), la storia dell’amore quindi non esiste (sarai sempre tradito) e, se proprio devo dirle tutte… ma, ‘ste cacchio di donne, farsi una padellatina di cavoli propri no eh? Le femmine rovineranno il mondo! Ma non sono femminista, ne’ maschilista quindi non continuo su questo punto a parte il citare – E tu donna partorirai con dolore! -… che poi… io ho visto partorire la mia gatta e non è che lei invece si è divertita così tanto rispetto a un’umana. Ha peccato anche pure la felide?

Però c’è un altro fatto da tener a mente. Ce ne sono molti a dire il vero ma non posso scrivere un romanzo. Ciò che in qualche modo colpisce è come i due protagonisti del fattaccio si siano mossi velocemente a darsi colpe l’uno con l’altra, senza cioè assumersi le proprie responsabilità. Quante somiglianze con il genere umano e così non si fa. No, no e no!

Esopo ha provato per anni, con le sue fiabe, a tirar fuori qualcosa di altrettanto idilliaco ma il massimo che ha ottenuto è stato di essere tradotto in prima liceo.

Ora, venendo seri, di favole ce ne sono state molte, ma ben poche sono riuscite ad avvilire intrinsecamente l’essere umano come questa e tutto quello che ne è poi conseguito. Innestando in lui il concetto dell’“aver sbagliato”, di partire già in svantaggio, di essere già dalla parte del torto. A prescindere. Un insetto di poco valore che ha osato sfidare Dio convinto di farla franca. Che porcheria. Che essere disgustoso l’essere umano! Come si è permesso? È bene che paghi ora e anche caramente. Dio sa tutto, vede tutto e può tutto. Ha fatto confessare i due malfattori perché era giusto ammettere le proprie colpe impauriti e micragnosi come due nudi vermetti ma, in realtà, lui aveva già visto.

E questa storia della confessione andò avanti per anni e poi per secoli, guardando individui che inconsciamente oppressi da una spada di Damocle pendente sui loro capi, andavano a raccontare tutte le loro malefatte a chi, sulla terra, intercedeva tra lui e il Regno dei Cieli. Qualche preghiera per espiare le proprie colpe e si poteva tornare a trascorrere la vita di tutti i giorni, commettendo gli stessi peccati, tanto, il sabato dopo, si raccontavano gli affari propri a chi poteva custodire i nostri segreti.

Ma… le favole… solitamente… non narrano di gioie e lieti fini? Sì, ci sono sempre l’orco e la strega cattiva ma poi c’è anche la vittoria del bene sul male. Tranne qui. Tranne in questa fiaba che ci hanno obbligato a vivere dove, il bene, se c’è, sta comunque perdendo da circa duemila anni. La fiaba. La nostra. Quella che dobbiamo vivere e che doveva essere la più bella di tutte perché era la nostra vita.

Ora, è vero che la parola “peccatore” dal latino “peccare” significa “sbagliare” inteso come “allontanarsi da Dio” (ne deriva l’allontanamento dall’Eden) ma io avrei cercato un’altra metafora anche se, devo ammettere, che questa ha funzionato.

…Come abbiano potuto campare, per così tanti anni, su una motivazione ridicola come quella della mela colta, disobbedendo a Dio, rimarrà un mistero per l’eternità presumo. Me lo devono spiegare. O forse no. Forse mi sono spiegata da sola.

Prosit!

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Il Dolore – l’indesiderato messaggero degli Dei

APRITE QUELLA PORTA (tipo Leatherface)

Non lo vogliamo con noi perché ci fa provare sensazioni spiacevoli. Ci fa male. È straziante e vogliamo allontanarlo, o non vederlo, o cacciarlo via. Mi riferisco al dolore che a nessuno piace. Mi riferisco a qualsiasi dolore ma, oggi, parlo più nello specifico di quello fisico, ultimo stadio di una scalinata in discesa.

Ogni tipo di dolore, o malessere fisico, è un messaggio che occorre tradurre e se ci convincessimo di questo la nostra guarigione avverrebbe in maniera più facile.

Ci sono dolori molto forti, i quali ci sembrano più potenti di noi ma se noi volessimo potremmo vincerli. A volte però ci trovano sfiniti, depositiamo le armi e li lasciamo fare soccombendo al loro volere. Prima di giungere a questo momento, dal quale è molto difficile uscire, si può provare a considerare cosa vuole dirci. Il dolore è come un bambino e se anziché allontanarlo da noi, provassimo ad ascoltarlo, smetterebbe di pestare i piedi isterico.

Spesso il dolore bussa alla nostra porta in modo molto lieve e noi non lo sentiamo, pertanto, non gli diamo retta. Allora bussa più forte, noi andiamo a vedere chi è, ma non vogliamo aprire l’uscio della nostra casa ad un essere così maligno che sappiamo ci farà del male. Così inizia a suonare il campanello. Un suono che ci trapana le orecchie, che inizia a intimorirci ma teniamo duro anche se già siamo avvolti da paura e fastidio. Anche se già ci ha buttati nell’angoscia. Infine, sfonda la porta.

Se ci comportiamo da “sordi” ci pensa lui a farsi sentire. E si impossessa di noi. Ora è lui a comandare e sembra furioso. Se decide che dobbiamo stare immobili nel letto, ci immobilizza nel letto. Non ci sono cavoli che tengono.

LASCIAMI PARLARE

Ma allora come si può liberarsi di lui? Lui ha un compito e lo porta a termine costi quel che costi. Siamo noi, in fondo, che abbiamo deciso di non ascoltarlo fin dall’inizio. Il suo compito è quello di avvisarci e di farci sapere che stiamo sbagliando in quella/e situazione/i facendo del male al nostro bambino interiore ossia soffocando e non riconoscendo il nostro essere divini. Se, quando giunge a noi, lo lasciassimo parlare e lo lasciassimo sfogare, ascoltando tutto quello che ha da dirci e provassimo poi a mettere in pratica i suoi insegnamenti, lui poi se ne andrebbe e non tornerebbe più. Non avrebbe più niente da spiegarci dal momento che abbiamo compreso.

Ma lasciarlo parlare significa permettergli di “farsi sentire” ossia significa per noi provarlo. Provare quel dolore, sentire male, stare poco bene. È molto più comodo, invece, prendere un medicinale o farsi operare così lo si zittisce e si sta subito meglio, per lo meno finché l’indesiderato ospite non decide di tornare più forte di prima.

Da semplice febbre si trasforma in gastrite, ad esempio, e quindi noi non correliamo le due cose, pensiamo a due eventi non connessi tra loro e questo accade perché non parliamo il suo linguaggio e nemmeno vogliamo impararlo. Diamo sempre la colpa a quello che la medicina ci ha mostrato come massimi responsabili: la sfiga, l’ereditarietà, il contagio, i virus, il periodo, il condurre una vita non sana.

E il nostro infinito potere interiore dove va a finire? Sono quindi vittima e schiava di agenti esterni. Se nasco in una famiglia di diabetici sono una sfigata senza speranza. Ecco lì, risolto tutto. No… non funziona così.

NUOVI AMICI

Siamo esseri unici e irripetibili. Nonostante i geni, simili a quelli dei nostri genitori, l’ereditarietà esiste perché ci convinciamo che deve esistere. Perché ci hanno insegnato che è vera. Su questa storia dell’eredità dovrò scrivere un articolo perché, mi si perdoni, ma la considero un po’ una presa in giro. Ora torniamo al dolore, al doverlo accogliere.

Lasciagli fare ciò che vuole. Sopporta il tuo dramma se non riesci ad accettarlo ma entra dentro di lui. Mescolati con lui. Ascoltalo fino in fondo. Non ti sto dicendo che non puoi usare aiuti se soffri incredibilmente e neanche ti sto dicendo di non fare nulla per guarire ma, lui, il dolore, deve essere accolto da te come se fosse tuo figlio. Non scacciarlo via dimenticandoti di lui. Parlagli. Chiedigli cosa vuole comunicarti. Domandagli cosa puoi fare per dissolverlo. Chiedigli perdono e persona te stesso per averlo creato. Se saprai ascoltare in modo fine, lui ti parlerà e nascerà tra voi un rapporto incredibile e interessante.

Non mi crederai ma molti dolori, piano piano, si trasformano in “migliori amici”. Si schierano dalla tua parte perché ti amano e, sempre presenti, si fanno sentire dando avvertimenti che ti mettono in guardia per non cadere nella trappola nella quale sei caduto tempo prima, quando sei quasi morto dal male. Lascialo fare, digli che non vuoi mandarlo via, che non ce la fai più a sopportarlo ma che accetti, nonostante tutto, la sua presenza. Chiedigli di essere magnanimo, il dolore ti sente. Ti sente perché è tuo, sei tu, è una parte di te. E coccolalo, coccolati. Coccolati come faceva tua mamma quando eri un bambino. Chiedigli scusa, fagli capire che hai compreso e impegnati sinceramente ad apprendere quella lezione. Accetta la sua furia, urla e ricordati che tu sei più forte di lui. Sei tu che hai creato lui e non il contrario. Tu sei il genitore, l’amministratore, anche se ti sembra impossibile.

LA LINGUA SCONOSCIUTA

Traduci la sua lingua. Cosa ti sta dicendo? Che vivi imprigionato perché sei vittima del giudizio degli altri? Come ti permetti? Tu sei Dio. Dentro di te c’è l’intera energia cosmica, sei formato dagli stessi atomi che formano l’intero universo e vivi un’esistenza di cacca perché altre persone ti valutano. Permetti a loro questo? Gli dai questo potere? Dai a loro il potere di farti sentire un inetto? Ti autosvaluti perché fin da quando sei nato, in qualche modo, ti hanno passato il messaggio che vali poco. O sei invidioso? Un essere onnipotente come te invidioso di altri, un debole quindi, un micragnoso, un insufficiente. Oppure ancora vivi completamente nella paura e nelle preoccupazioni. Hai paura di tutto: dei soldi, dei sentimenti, del mostrarti, del lavoro, della malattia, dei legami… individua come un chirurgo cosa sta cercando di dirti il tuo dolore. Vuole solo aiutarti. Vuole solo suggerirti che tutto ciò nasce da delle trappole della mente. Da inganni ai quali tu dai un valore inestimabile, probabilmente, senza rendertene conto. Vuole farti capire che puoi vivere libero, libero da tutto questo e quindi in perfetta salute e in totale armonia.

Prosit!

photo blog.pianetadonna.it – unoduetre.eu – scuola.net – m.rimininotizie.net – unica.it – ufoforum.it – fiumesilente.com

Avrei voluto dirti tante cose quando mi chiedesti di Dio

Puoi credere a Dio come meglio credi. Puoi appartenere ad una religione oppure no. Puoi pensare che Dio sia l’Amore o una figura precisa. Puoi pensare che Dio sia nella natura o sopra una nuvoletta. Puoi chiamarlo come vuoi. Sappi solo che sei la sua espressione e la sua manifestazione migliore.

Avrei voluto dirti tante cose quel giorno in cui mi chiedesti di Dio ma non ti dissi niente.

Avrei voluto spiegarti come realmente stavano le cose, per il mio sentire, e invece mi bloccai, sorpresa e preoccupata, nei confronti dell’intricato discorso nel quale mi sarei dovuta cacciare.

Avrei saputo raccontarti molto ma non lo feci, negandoti la possibilità, anche minima e forse impossibile, di poter intravedere uno spiraglio di luce.

Fu per questo che venni a prenderti, dopo tempo, all’improvviso. Non avrei più permesso al mio silenzio l’evitarmi di donare una nuova idea. Una nuova riflessione. Fu per questo che, armata di tanto coraggio, ti obbligai a guardarmi negli occhi pronta a sfidare ogni tua richiesta, ogni tua sarcastica risata, ogni tua incredula frase condita di rabbia e voglia di zittirmi. Fu per questo che venni a chiederti di ascoltarmi, di lasciarmi spiegare.

Eri un uomo grande e grosso, e lo sei ancora, ma fu come vederti ancora più grande… con la tua mente chiusa e la tua giustizia. Un rivoluzionario che non amava i soprusi e si lasciava guidare, convinto, dalla sua onestà.

Ricordo i tuoi cinquant’anni che vedevo come un ostacolo. Ricordo l’impulso d’amore che provai per te in quel momento.

Ricordo il tono della tua voce che mi fece la fatidica domanda trovandomi muta. Ricordo la voglia di sviscerarti addosso tutto ciò che mi apparteneva e la scelta, poi, di mordermi la lingua. Ricordo il tuo sguardo avvilito… – Meg… perché Dio ce l’ha con me? -.

Quel tuo vedere te stesso come un giudice punitore ma non lo comprendevi.

E avrei voluto abbracciarti più forte di come feci e lo faccio ora, perché so che non mi credi ma mi leggi ed è come se la tua lunga barba, morbida, accarezzasse le mie guance. Perchè so che qualcosa ti attira verso le mie parole.

Avrei voluto dirtelo fin da allora.

Non esiste nessun Dio che possa avercela con te. Nessun Dio ti giudica. Nessun Dio ti punisce. Nessun Dio ti premia.

Quando ti feci voltare, obbligandoti a guardarmi, la prima cosa che ti chiesi fu – Quanto tu ce l’hai con te stesso? Quanto ti credi sbagliato e meritevole di punizioni?! Quanto pensi di non essere degno d’amore, d’abbondanza, di compassione?

Io mi muovo sempre per il bene – mi dicesti

Un giustiziere. Perché? Perché tutta questa rettitudine nei confronti degli altri? Quali peccati devi espiare? Quali grandi colpe… o quali grandi bisogni devi soddisfare? – risposi.

Fu in quel momento che vidi un tuo sopracciglio inclinarsi verso il basso. L’attenzione. La concentrazione. Due piccole rughe, nette e stropicciate, presero forma in mezzo ai tuoi occhi. Ti avevo. E non ti avrei più lasciato andare.

Quanta punizione pensi di meritare per uno sgarro?

Tanta – mi rispondesti dopo qualche attimo di silenzio

E quante volte compi errori ai danni degli altri o di te stesso?

Fosti più pronto perché non guardasti oltre il “velo”.

Raramente

Questo è il tuo più grande sbaglio. La tua più grande menomazione. Il non vedere -. I tuoi occhi si fecero a fessura. Continuai. – Non ti rendi conto che, dentro di te, il carburante che ti fa muovere, è l’estremo bisogno di piacere agli altri, di essere apprezzato, di essere accolto e amato. Ogni tua mossa ha questo fine inconsapevolmente -.

Che male c’è?

Il male risiede nel movente. Perché ti adoperi in questo senso? Te lo spiego io. Perché hai paura. Paura di non essere visto. Paura di essere messo in un angolo. E perché sei povero. Povero di amore e rispetto per te stesso. La paura e la povertà sono gli elementi che costituiscono questo tuo stato d’essere. Ne sei permeato. Ne sei pieno dentro quanto fuori, attorno a te. Questa è la tua punizione. La tua crocifissione che tu soltanto ti stai infliggendo. Nessun Dio lo fa al posto tuo. L’unica cosa che potrebbe fare Dio, qualora avesse i nostri sentimenti, sarebbe quella di offendersi. Di dover accettare di malavoglia che una sua creazione, unica e perfetta, sua figlia, non si ama. Non riconosce la sua perfezione e mendica accettazione dagli altri. Una sua scintilla, divina quanto lui, padrona del cosmo, vive nella paura e nella povertà. Vive nella punizione laddove alcuni suoi demoni esistenti, dei quali lei non ha colpa, la fanno sentire una povera esistenza mediocre. Laddove nutri il senso di colpa perché non c’è libertà. Perché sei vittima del giudizio, palese o subdolo che sia, di chi ti sta attorno. E perché tu stesso giudichi. Giudichi il giusto e lo sbagliato, con occhi e sensi fisici, perchè tu stesso sei a favore della punizione dolorosa, senza osservare con lo sguardo dell’anima che vede attraverso il cuore. Il cuore, la sede di Dio. Dove vorresti perdonare ma gli schemi mentali te lo proibiscono. Dove vorresti arrenderti ma la ragione ti convince ad infierire. Dove vorresti accettare ma saresti solo un verme se lo facessi. Dove vorresti coccolarti ma ti hanno insegnato che, in certi casi, non si devono usare le carezze ma le sberle. Chi si sta punendo? Dove si trova un Dio disposto al perdono se il perdono non c’è? Come potresti trovare un cammello nella macchia mediterranea? Guardati… chi si sta punendo? Chi si mette davanti a tali prove?

Dio mi punisce perché non vado verso di lui?

Dio è amore. Non c’è nessun Dio là fuori concepito come ci è stato insegnato. L’amore è la Sorgente. L’energia cosmica. Quella è Dio, ed è ovunque. E’ quando non vai verso l’amore, verso qualsiasi sua forma che incontrerai ciò che stai incontrando. Che incontrerai punizioni al posto di compassione, vendetta al posto del perdono, bastonate al posto della dolcezza. E una delle forme più importanti è quella da rivolgere a te, perchè amando te ami Dio e ami il Tutto. Rispettati se vuoi che tutto l’Universo abbia rispetto di te

L’abbraccio. Il silenzio.

Prosit!

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Io che non piango mai sono arrabbiato con mia madre

IL VALORE DELLE LACRIME

Fin da quando veniamo al mondo, il principale mezzo che abbiamo per attirare l’attenzione della mamma è quello di piangere. Il pianto ci permette di farci sentire, o di mostrare un disagio attraverso le lacrime. Questo mette in allerta il genitore che provvederà immediatamente a prendersi cura di noi. E’ la manifestazione di un bisogno.

Se siamo abbastanza furbi, continueremo ad utilizzare questo metodo anche crescendo, almeno finché non veniamo scoperti, frignando in modo teatrale per ottenere quello che vogliamo. La nostra tristezza dovrebbe smuovere i cuori di compassione e, secondo i nostri calcoli, anche un solo – Cosa c’è? – dovremmo ottenerlo. Purtroppo però, a volte, non funziona proprio tutto così. Qualcosa non va come avremmo voluto e, senza rendercene conto, dobbiamo iniziare a pensare a qualche altra soluzione.

Ci sono adulti che non piangono mai e parlo di adulti perché occorre maturare all’interno alcune emozioni.

IO NON PIANGO MAI

Questa prerogativa appartiene soprattutto al sesso maschile ma anche molte donne evitano il pianto e la sua manifestazione. Il non piangere o il non riuscire a piangere, può essere provocato da un disturbo fisiologico come una stenosi o un’ostruzione parziale o completa ai dotti lacrimali, oppure per una scelta più o meno consapevole, a volte figlia di un’educazione ricevuta, a volte no. In entrambi i casi, secondo la Psicosomatica, alla base esiste un conflitto con la madre che ora proverò a spiegare.

Quando un bambino non si sente sufficientemente considerato dalla propria mamma, piano piano, crescendo, inizierà a smettere di piangere. Sembra quasi un evitare uno spreco di energie che risultano inutili. Nella parte più profonda, e qui c’è il dramma, risiede però una sorta di collera nei confronti di quel genitore, una collera non elaborata e non trasmutata in emozioni migliori. Infatti è un po’ come se, l’individuo, per pura difesa personale, dicesse: – Non vuoi ascoltarmi? Bene, allora io ti dimostrerò che posso tranquillamente farcela anche senza di te e senza il tuo aiuto. Me la cavo da solo. Come sarebbe? Prima mi metti al mondo e poi non mi consideri? E allora della tua considerazione non me ne faccio nulla -.

Le persone che durante l’infanzia sono state spesso sole o si sono dovute sbrigare a crescere velocemente, è perché hanno avuto madri che poche coccole gli hanno fatto. Non parlo solo di madri anaffettive ma di madri che, per qualche ragione, non avevano tempo. In base a questo occorre comprendere che non esistono colpe ne da parte del genitore, che probabilmente non l’ha fatto apposta e non si è accorto di nulla, preoccupandosi di cose forse per lui più importanti come il guadagnare per sfamare il proprio figlio, ne’ da parte del bambino che semplicemente pretendeva un diritto naturale che gli è stato negato e ha così creato una sorta di scudo per difendersi dal dolore che provava per quell’esclusione.

NESSUNA COLPA… SOLO QUALCHE CONSEGUENZA

Non ci sono colpe ma ci sono comunque rimedi per riuscire a vivere meglio. Quelli scoperti senza l’autosservazione sono però solitamente deleteri. Spesso accade che una madre si rende conto dei propri “errori” in tarda età e inizia a nutrire un senso di colpa che non porta a nulla di buono. Mentre il figlio, oltre a non piangere mai e trattenere, potrebbe (o desidererebbe) inconsciamente andare alla ricerca dell'”amore perduto”, passando attraverso duecentocinquanta donne (se è maschio) e vivendo soltanto tormenti o delusioni da molte relazioni, laddove la colpa non sarà mai la sua ma sempre della compagna-madre.

Avrà bisogno di un amore che non saprà ricambiare. Avrà bisogno di calore, di affetto sincero e sarà avido di unicità. Pretendera’, in cuor suo, di essere al centro dell’attenzione del partner pur ammettendo l’esatto contrario.

E pensare che con un bel pianto si risolverebbe tutto! Ok, no, non scherziamo. L’argomento è serio.

Piangere può far bene soprattutto quando, al proprio interno, esiste questa rabbia soffocata. L’acqua (lacrime) spegne il fuoco (ira) e, inoltre, in questo caso, appare come la manifestazione fisica del demone che, in parte, esce da noi, va via, ci abbandona perché siamo riusciti a trasmutarlo! Che bellezza!

Gli occhi secchi, di chi non piange mai, sono occhi senza vita. Sembra esagerato questo concetto ma serve a far capire quanta sofferenza c’è dentro ad una persona che nutre un conflitto (magari inconscio) nei confronti di chi lo ha messo al mondo e che avrebbe dovuto dargli l’amore più grande e più puro come fondamenta di quell’esistenza.

Un figlio è come una specie di prolungamento della madre, in particolar modo fino ad un certo periodo di vita, e quando questo stesso prolungamento non riesce a nutrirsi dalla pianta madre, immaginatevi come possa non sentirsi “morire”. Invece riesce a vivere, con tutte le sue forze. Si riempie di orgoglio, non vuole lasciarsi andare e se da grande apparirà un cinico orgoglioso, beh… com’è che dicevano gli Indiani d’America? – Non giudicare il tuo vicino finché non avrai camminato per due lune nei suoi mocassini -.

LE LACRIME DEL PERDONO

Dentro ognuno di noi c’è una battaglia in corso, per questo ci vuole rispetto. Sempre.

Si può anche scegliere di non piangere ma occorre chiedersi se lo si fa solo per sembrare dei duri che non hanno bisogno di niente e non vogliono mostrarsi vulnerabili o deboli, oppure per altri motivi. L’ho detta in breve ma si dovrebbe capire cosa intendo.

Le persone che non piangono mai sono solitamente individui che vogliono avere sempre ragione, abbastanza orgogliosi, che odiano essere colti in fallo e sono pronti a negare l’evidenza. Per questo trovo importante osservarsi, perdonare e perdonarsi. Perché suppongo non sia sereno vivere così.

Una mamma può essere innocente o colpevole ma tu se puoi perdonala. Non per fare un piacere a lei, solo perché è tua madre, ma per donare a te stesso sollievo e armonia. Distaccati da questo rancore e, da qualche parte, troverai l’amore che da quando sei nato ti manca.

Prosit!

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Va’ che me ne sono inventata un’altra… si chiama O.A.P.A.

Ma che cos’è O.A.P.A.?

Innanzi tutto, e voglio che questo sia chiaro, O.A.P.A. non è e non vuole essere una nuova tendenza, un nuovo metodo per raggiungere il benessere, un nuovo modo di dire e bla bla bla…. No! Ne abbiamo già un mucchio di queste trovate, giuste o sbagliate che siano. Di gente che si alza al mattino e s’inventa cose per divenire i nuovi Guru del 2000 verso i quali non ho nulla in contrario ma O.A.P.A. non è la parola di nessun nuovo Gesù.

O.A.P.A. vuole essere semplicemente uno strumento, di quelli che funzionano “presto e bene”, da usare all’occorrenza in caso di bisogno. Vuole essere soltanto una sigla che riporta a termini molto più complessi e più profondi e, soprattutto, a lavori di trasmutazione alchemica (più antichi del mondo, quindi novità non ce ne sono) ma difficili da ricordare e mettere in pratica quando la sofferenza ci rende vittime e schiavi di se stessa.

 

COME L’APPUNTO SU UN POST IT

Ossia, in breve: – Sto male! – (panico) – Che faccio??? O.A.P.A.!

E funziona? …No.

No perché O.A.P.A. non è un elisir, non è una pillola, non è un sacchettino di sale da mettere sul davanzale della finestra. Qui non si vende niente. O.A.P.A. è solo un appunto veloce, pronto, comodo, scattante ma non fa magolamagamagie… a meno che…..

Continuate a leggere che vi spiego, perché O.A.P.A., in un certo senso, può nascondere il Tutto.

 

UN IMPORTANTE LAVORO ALCHEMICO

Come vi dicevo O.A.P.A. è l’insieme delle iniziali di quattro parole che sono:

O – Osservazione (Tecnica dell’Osservatore – dell’autosservazione)

A – Accettazione

P – Perdono (Perdonarsi)

A – Amare (Amarsi)

Ora direi di spiegarle così poi capite meglio il lavoro da fare.

OSSERVAZIONE: la tecnica dell’Osservatore implica osservarsi in un’introspezione. Osservare le proprie emozioni e i propri pensieri. Rendersi conto di quello che stiamo provando. Sembra una stupidaggine ma non lo è ed è alla base di un lavoro importantissimo da compiere su noi stessi se si vuole elevare la propria consapevolezza e imparare a vivere meglio come Sé Superiore. Facciamo un esempio molto semplice – Io mi arrabbio. Mi arrabbio e grido, urlo, mi offendo, dico le peggio cose oppure trattengo tutto dentro, etc, etc… Bene. Posso poi dispiacermi, posso poi stare male, posso poi essere soddisfatta della mia crisi di collera ma, tutto questo, non significa essermi osservata. Osservarsi infatti vuol dire “rimanere sull’emozione”. Cioè fermarsi un attimo e rimanere lì, in quella rabbia, concentrarsi su di lei, sentirla, sentirla nelle vene, sentirla fisicamente, riconoscerla. Stare su di lei percependone ogni vibrazione e soprattutto SENZA GIUDICARLA. Ora, è facile non giudicare una sbottata di collera soprattutto se si aveva ragione di manifestarla ma supponiamo che, anziché essermi arrabbiata, io mi sia fatta mettere i piedi in testa da una persona ben poco ammirevole e che mi ha anche fatto fare una pessima figura, immeritata, davanti a molta gente. Inizio a provare la vergogna. Ok, devo osservarla, devo rimanere su di lei, su quella vergogna. Viverla appieno. La sentirò incendiarmi dentro, scombussolarmi le viscere, scuotermi i sensi e mi verrà spontaneo avercela con lei e con me stessa. “Che stupida sono stata! Mi sono fatta maltrattare da quell’individuo ignorante! Non valgo niente!”. Ecco, questo è un giudizio. Un giudizio che nasce spontaneo ma che invece non deve e non può appartenere alla tecnica dell’autosservazione. E’ difficilissimo da effettuare ma occorre provare e riprovare fino a riuscirci se si vogliono ottenere dei risultati. La tecnica dell’Osservatore, così come le altre che vi spiegherò ora, sono molto lunghe da raccontare e consistono in diverse cose ma per comporre un solo articolo non posso dilungarmi più di tanto.

ACCETTAZIONE: Eccola qui. Eeeeh… sembra facile. E che ci vuole? Ok, sì, accetto. E no… attenzione. Accettare non vuol dire sopportare o reprimere. E’ importante questo! Sopportare o reprimere è DELETERIO! Accettare significa accettare anche una cosa brutta che ci capita con la gioia (reale) nel cuore. Significa accogliere totalmente. Significa avere occhi per vedere oltre. Per capire il messaggio profondo di quella situazione. Cosa vuole dirci? Cosa vuole insegnarci? Perché è successa? Guardate che non è facile. Vi voglio vedere accettare, di cuore, il male. E’ tragico. Fa male! (Appunto). Vorremmo liberarcene il più in fretta possibile, scacciarlo da noi, altro che accettarlo! Facciamo un esempio anche qui – Io non riesco a vivere senza il mio compagno. Senza di lui mi manca l’aria ma lui, guarda “caso”, decide di lasciarmi e di me non ne vuole più sapere. Io mi struggo nel dolore e faccio di tutto per riconquistarlo e per continuare ad avere un rapporto con lui. Non posso accettare di perderlo. Gli mando messaggi e lui mi risponde come a rispondere ad una merdaccia, lo chiamo e lui non alza la cornetta, lo aspetto e lui non viene, lo seguo e lui mi offende. Insomma, io sto facendo di tutto per farmi mancare di rispetto da quella persona. Lui mi maltratta ma io continuo, senza dignità, perché è più forte in me il demone dell’attaccamento che non l’amore per me stessa. Ebbene, questo è un vero strazio da vivere. Ci si sente stupidi, senza midollo, ci si sente uno straccio, un lombrico e non si riesce ad accettare una cosa così. Si invidiano quelle donne forti, che non devono chiedere niente, che non sono mendicanti d’amore, che hanno una fila infinita di uomini pronti a fare qualsiasi cosa per loro. Tutto questo è l’esatto contrario dell’Accettazione. E si sta male. Però, a furia di lavorare su noi stessi e soprattutto grazie all’Osservatore, piano piano, dopo lunghi pianti e tanta tristezza, qualcosa dentro inizia a cambiare. Si iniziano a dire frasi come “Mah…. ok, sono fatta così, sarò anche fatta male ma sono io” e poi “Sì, io sono così e sono bella così”. Non è che non si soffre più ma l’essere se stessi, e il suo riconoscimento, e l’accettazione di cosa siamo, iniziano a prendere forma e a diventare più grandi della forma negativa che prima appannava tutta la nostra visione senza permetterci di guardare altro. E, quando questa accettazione è sentita sinceramente, si inizia a stare sinceramente bene. Non è solo un’apparenza perché, se è reale, non si tratta di sopportazione o repressione quindi si percepisce davvero più leggerezza. Il nostro fine è stare meglio. Essere padroni della nostra vita, ripeto. Sentirsi liberi e sereni. Affrontando la nostra esistenza in totale benessere.

PERDONO: Accettando di essere quello che si è, con tutte le nostre caratteristiche positive o negative che siano, automaticamente, si ama ciò che siamo e questa è la ricchezza più grande che possiamo donare a noi stessi. Perdonarsi, che meraviglia! Io sono fatta così, io mi sono fatta fare questo, io ho fatto questo, ebbene io mi perdono. Non lo faccio apposta a soffrire. Sono i miei traumi, i miei schemi mentali, i miei demoni che mi provocano sofferenza, per questo mi perdono. Badate bene che questo non significa nascondersi dietro a un dito ma significa pompare un meccanismo strabiliante che, alla fine, darà frutti incredibili per la nostra felicità. Ci si inoltra in una situazione potente che ci permetterà di essere forti, autonomi, gai, liberi e in connessione con il Divino.

AMARSI: E nella connessione con il Divino non può mancare l’Amore. L’amore per il Tutto, per chiunque e per noi stessi. Amarsi. Amare ciò che siamo. Ciò che facciamo. Amarci per come siamo. Infatti, dopo essersi perdonati, dopo aver eliminato tutti i brutti pensieri verso la nostra persona, abbiamo lasciato lo spazio all’amore che ora trionfa in noi permettendoci di vivere in maniera completamente diversa da come vivevamo prima e decisamente meglio. Anche qui occorre fare attenzione. Ci sono appunto dei passaggi. Non bisogna mentire a noi stessi. Non bisogna dire – Io amo quella persona che mi ha maltrattata perché per me è stato un Maestro! Mi ha insegnato quella determinata cosa, grazie a lui ho sconfitto un demone e ora sto bene e mi amo per ciò che sono e sono stata – se non lo si pensa realmente. Perché vorrebbe dire fingere e nuocere gravemente alla nostra salute. Perché è difficilissimo da fare. Perché a questo “caro Maestro”, in realtà, si vorrebbe tirare un bel pugno sul naso! Il che ci può anche stare ma, la cosa importante, è vedere quello che c’è da vedere giù, di sotto, nel fango più fangoso che c’è. Nella nostra spazzatura. Allora si che quel cazzotto può avere un buon fine anziché non servire a nulla! Eh! Ricordatevi sempre che amarsi, riempirsi di Agape, è veramente il regalo più grande che potete farvi e, di conseguenza, attraverso voi, potete fare a tutto il creato. L’Amore, in questo caso, và a collegarsi con l’Accettazione. Amare quindi quella situazione, quella persona e quello che siamo.

 

LA COMPRENSIONE

Adesso potete anche capire quanto sia importante la sequenza di queste parole. Il loro ordine. Ecco perché O.A.P.A. e non, ad esempio, P.A.O.A. Perché non si può perdonare nulla se prima non lo si è accettato. O non si può accettare nulla se prima non lo si è osservato e quindi riconosciuto. Da qui ne deriva l’importanza di questa sigla.

Quando stiamo male, colti dall’angoscia, e vogliamo esercitare un lavoro su noi stessi, al fine di porre rimedio, può capitare di chiedersi “Cosa devo fare?” e di rispondersi agitatamente “Devo accettare, devo accettare, devo accettare….”. No! Prima bisogna Osservare! Ma la disperazione ci fa arrancare come possiamo. Invece, se quando chiediamo a noi stessi “Cosa devo fare?” rispondiamo “O.A.P.A.!”, ci viene subito alla mente l’ordine giusto delle varie armi che abbiamo in mano e possiamo utilizzare. Naturalmente, senza ipocrisia e falsa accettazione. Tutto però avverrà con calma e col tempo. All’inizio sarà impossibile amare un dolore. Poi inizierà a divenire una cosa solo a livello mentale ma, infine, questo amore, se si continua a nutrire, lo si sentirà nel cuore. E non dico che non si soffrirà più, non sarebbe neanche giusto, ma non si sarà più schiavi, a tempo indefinito, di quella sofferenza senza trarne nulla di buono. Quell’ombra rimarrà un’ombra, mentre invece, esiste al fine di condurre ad una luce, la quale, a sua volta, ha altre ombre e così via, ma si è “padroni” della nostra vita. Co-creatori della nostra esistenza e non pezzi di legno in balia delle onde.

Non si potrà svolgere questo lavoro in un attimo e nemmeno in un giorno. Alcune persone ci impiegano mesi, altre anni. Ognuno ha i suoi tempi e il suo percorso ma, credetemi, ne vale la pena.

Ecco cos’è e a cosa serve O.A.P.A. Un qualcosa di nuovo, antico quanto l’uomo. Semplicemente pronto all’uso! Spero vi sia utile perché, per un buon lavoro su noi stessi, questi sono i passaggi e queste le cose da fare (secondo me). Per chi volesse approfondire ulteriormente questi quattro punti lascio dei video e degli articoli:

OSSERVAZIONE

http://www.salvatorebrizzi.com/2018/03/evadere-dal-carcere-in-10-passi-10.html

ACCETTAZIONE

PERDONARSI

AMARSI

O.A.P.A. può risultare errato per diverse persone. Può essere visto all’inverso. Alcuni possono dire che bisogna prima amare per poter accettare (e questo è anche vero) ma io ho semplicemente voluto parlarvi di una “tecnica” che ho usato e che mi ha aiutato molto. Tutt’ora la utilizzo, è sempre in me, ogni giorno. A mio parere, non siamo solo pieni d’amore; dentro di noi esistono mille altre emozioni che prendono posto al nostro interno e molte sono esageratamente negative. Per questo, a mio avviso, occorre prima riconoscerle e accettarle. Mi sembra più difficile partire dall’amare ogni cosa, perché saremmo già degli illuminati come si usa dire. Rischiamo di trattenere, soffocare, un qualcosa che poi diventa nocivo. Ma, naturalmente, la mia parola non è legge. Provatela, solo conoscendola potrete vederne i benefici o le caratteristiche negative (quest’ultime io non le ho viste) e, perché no, magari potrete realizzare voi stessi un qualcosa di bello che faccia bene al mondo.

Prosit!

A te Louise

Se ne è andata pochi giorni fa lasciandomi un po’ triste e malinconica.

A lei voglio dedicare questo articolo; a lei voglio fare questo piccolo dono.

Sono e sarebbero tante le persone da ringraziare, e non è detto ch’io non lo faccia in futuro ma, a Louise, sono particolarmente affezionata. E’ riuscita ad entrare nel mio cuore, con una dolcezza incredibile, e lì è rimasta.

Louise L. Hay, promotrice e divulgatrice del Pensiero Positivo.

Gli scettici diranno che le sue affermazioni erano solo baggianate. Alcuni, nel sentir dire che è mancata nel sonno, per cause naturali, azzarderanno il voler nascondere da parte del suo team una probabile malattia e dimostrare così che, le malattie, non si sconfiggono pensando positivamente come lei esponeva. Altri, osserveranno scrupolosamente il suo viso, provando a notare, in quali punti, la chirurgia estetica ha svolto il suo ruolo. Perché un viso così… a 90 anni… è impossibile da avere. E se la dolce Louise, si fosse fatta dare qualche aggiustatina, allora voleva dire che non si accettava per quella che era. Ma come? Proprio lei che ripeteva di continuo il doversi amare e perdonare e accettare per ciò che siamo? Altri ancora, continueranno a battere il piede sull’assenza delle prove, certe e scientifiche, inerenti alle sue strambe filosofie.

Ebbene, oltre a tutti e a tutto, io sono qui a scrivere che, a me, Louise ha dato tanto. Che non m’interessa chi era o cos’era e cosa faceva, so soltanto che mi ha fatto stare bene e, come è riuscita con me, è riuscita anche con tante altre persone. Non m’importa creare schiere di chi la pensa così o meno, intendo semplicemente ringraziarla e continuare a fare buon uso dei suoi utili e stupendi consigli.

Perché, che se ne dica, Louise, al mondo, ha dato tanto e di cuore. Ha provato a dire che c’è una magia attorno e dentro di noi, che siamo esseri perfetti e che possediamo una potenza troppo spesso, o sempre, sottovalutata.

Ha mostrato l’abbondanza che ci circonda provando a convincerci che, di quella ricchezza, ne facciamo parte.

Ha tentato di farci comprendere come sconfiggere i malesseri, soltanto grazie all’immensa forza dell’amore che, se è vero essere la forza più potente dell’Universo, è anche più forte di qualsiasi malattia.

Ha provato ad insegnarci il perdono e il suo valore. La bellezza della generosità.

Ad insegnarci il peso e l’influenza delle affermazioni negative e di quelle positive.

Ha conosciuto la meraviglia del Cosmo e ne ha voluto parlare, a tutti, traducendone i segreti e rendendo varie dinamiche più comprensibili.

Non sto a sindacare su cosa ha fatto o cosa ha detto, ad indagare se davvero ha fatto e davvero ha detto, ma so, di per certo, che ha fatto di tutto per il BENE. Ed è su questo che, a mio avviso, occorre soffermarsi.

Per questo Louise, rimarrai sempre nel mio cuore.

Grazie per tutto quello che hai fatto.

Con amore Meg.

Per chi volesse conoscere la sua storia https://it.wikipedia.org/wiki/Louise_Hay

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A modo mio: Interpretazione di “Gesù guarisce il servo dell’Ufficiale”

Dal Vangelo secondo Meg 1° – niente di religioso ma di molto curioso

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“Come Gesù entrò in Cafarnao, gli venne incontro un Ufficiale a scongiurarlo: – Signore, il mio servo a casa è a letto paralizzato e soffre terribilmente -. Gesù gli disse: – Verrò io a curarlo -. Ma l’Ufficiale rispose: – Signore, non merito che tu entri in casa mia. Dì soltanto una parola e il mio servo guarirà. Infatti io che sono un subalterno ma ho ai miei ordini dei soldati, se dico a uno vai, egli va, e a un latro vieni, quello viene, e al mio servo fai questo, lo fa -. Sentendo Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: – Ve l’assicuro che in nessuno degli israeliti ho mai trovato una tale fede. Vi dichiaro che verranno dall’Oriente e dall’Occidente per prendere posto al banchetto nel regno dei cieli con Abramo, Isacco e Giacobbe. Invece gli eredi naturali del regno saranno gettati fuori nella tenebra a piangere e rammaricarsi -. Poi Gesù disse all’Ufficiale: – Và a casa, e ti avvenga come hai creduto -. E in quell’istante il servo fu guarito”.

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Ciò che si comprende da questa parabola è innanzi tutto l’incredibile fede dell’Ufficiale, in alcuni testi chiamato Centurione, una fede smisurata, esagerata, tant’è che lo stesso Gesù afferma che nemmeno in tutto il popolo d’Israele aveva mai trovato un credo così grande. Quell’uomo aveva riconosciuto l’immensa diversità di potere tra lui e il Messia perciò, con molta umiltà, esclama parole che stupiscono il Maestro. Un Maestro che arriva ad ammirare quell’uomo. Nella fede totale l’essere umano supera se stesso entrando in comunione con Dio. Infine Gesù premia questa fede posta in lui e guarisce il servo dimostrando a tutti che occorre sempre impegnarsi per il bene del prossimo, soprattutto quando è più bisognoso di noi.

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Questo è il messaggio che riporta la religione cattolica e non è un brutto messaggio, ma limitato a mio avviso, e anche un po’ errato.

La citazione principale di questa parabola è – Basta che tu dica una parola e il mio servo sarà guarito

La stessa frase che si recita al momento dell’Eucarestia durante la S. Messa – Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato -.

Cosa significa tutto ciò?

Detta così la recitazione sembra indicare il fatto che io peccatore devo essere perdonato prima di potermi permettere di sedere alla mensa del Signore. Il messaggio per molti viene preso in modo denigratorio – Io non sono degno…-, molto giudice, molto severo, – Ho commesso peccato e quindi non posso avvicinarmi alla mensa di Dio… -.

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Però i propositi sono buoni, a questo Dio basterà pronunciare una sola parola (se mi pento e mi dolgo dei miei peccati), io verrò perdonato e potrò avvicinarmi a lui.

…“Ok, non si è capito bene come funziona questa cosa, ma così mi hanno detto di fare e io lo faccio”.

Una nota molto bella perché induce al perdono, ma al perdono di un Dio superiore staccato da noi, io penso invece che non esista nessuna separazione tra noi e quel Dio. Noi non siamo in comunione con Dio, noi siamo Dio, quindi siamo noi stessi a doverci perdonare. La frase “ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato” stà proprio a significare che nel momento in cui mi accorgo di questo, di essere Dio, (sento la voce/parola di Dio “dentro di me”) mi rendo conto di essere Dio. “…Fatto a sua immagine e somiglianza“. Formato dalla sua stessa sostanza, perché Dio è il Tutto. E’ l’onnipresenza.

Il DIVINO che noi abbiamo sempre considerato appunto un Dio, un personaggio sovrannaturale, non è nient’altro, e questo lo spiegavano già gli antichi greci ancor prima della discesa di Cristo sulla terra, che il nostro Sé Superiore, la scintilla dell’Energia cosmica, propria di ogni essere umano, capace di infondere sensazioni di gioia travolgente, una beatitudine totale che l’uomo, attraverso la fede, potrebbe arrivare a provare solo volendolo.

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Un’Energia cosmica fuori e dentro di noi, unita in un tutt’Uno. E se non c’è malessere nel cosmo non può nemmeno esserci all’interno di un essere umano, perché è attraverso la propria Energia che quest’essere umano è in grado di auto guarirsi e guarire.

Il perdono è una delle più alte forme di guarigione fisica e psichica, è uno strumento potentissimo che non fallisce mai. Perdonarsi induce automaticamente ad amarsi e non corrisponde al giudizio di qualcun altro, né al nostro giudizio personale. Il giudizio porta alla malattia, cosa significa questo? Significa che giudicando si va incontro a frequenze negative, si emanano e si attraggono frequenze negative, le frequenze che fanno ammalare. Perdonare permette di percepire il DIVINO, di sentirne la voce, o meglio la presenza. Ecco da cosa dobbiamo essere salvati, dal non aver mai ascoltato la vera Energia divina universale. Non abbiamo mai creduto alla sua potenza, non abbiamo mai creduto alla nostra parte spirituale, alla nostra anima. Credendoci, avendo fede, si guarisce automaticamente. Ed è persino sbagliato dire “avere” fede perché in realtà bisognerebbe usare il verbo essere: “essere” fede.

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A guarire il servo non è stato Gesù, ma la fede stessa dell’Ufficiale, così potente che divenendo Spirito divino, pura e miracolosa Energia, ha potuto, solo volendolo, solo considerandolo, guarire il proprio schiavo. Una convinzione così grande che “nemmeno tutto il popolo d’Israele messo assieme aveva”.

Pensate che basterebbe in realtà….  – Un goccino di fede grande quanto un misero granello di senape – parola di Gesù.

Và a casa, e ti avvenga come hai creduto – dice infine il Messia. Come TU hai creduto che avvenisse. Come TU hai creduto, ossia come TU hai voluto. Hai TU creato quella realtà.

Il Regno di Dio è dentro di voi – dice anche in altri contesti, ossia, dentro a ciascuno di noi c’è l’Energia universale, noi stessi siamo Dio, noi stessi conteniamo l’Universo al nostro interno. Ci perdoniamo perché non abbiamo creduto in questo.

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Il danno più grande che abbiamo potuto fare è stato quello di non vivere in corrispondenza con il divino, con il creato (siamo formati dai stessi suoi quanti, le più piccole e indivisibili parti dell’Energia, e dai suoi stessi atomi, le più piccole e indivisibili parti della Materia).

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Questo è il perdono.

Se siamo riusciti ad ascoltare la voce della nostra anima, quella che dice – non vergognarti di essere grasso, sei bello così

quella che dice – non giudicare l’altro, fai del male a lui e a te stesso

quella che dice – non aver paura della vita affidati al tuo potere

quella che dice – la vita ti ama non ti abbandonerà mai

quella che fa notare che non esisti solo tu al mondo, quella che permette di ascoltare i suoni della natura senza zittirli, quella che ordina – Chiedi! E ti sarà dato ciò che vuoi, credici!

e dice molte, molte altre cose, allora vuol dire che ci siamo salvati.

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Vuol dire che abbiamo capito. Che siamo entrati in uno stato di consapevolezza che permette di credere all’Energia. E’ tutta una questione di Energia.

Saremo salvi, si perché finalmente potremo iniziare a vivere come non abbiamo mai vissuto. Potremo vivere creando la nostra realtà, potremo vivere senza negatività, potremo vivere nell’amore e non nella vergogna, non nel giudizio, o nell’ipocrisia.

Senza confondere troppo le idee mi viene in mente un’ulteriore frase di Gesù, cioè – Diventa Re e un Regno ti sarà dato – meravigliosa citazione che potremmo tradurre in – Diventa Dio, sentiti Dio, ciò che sei, e la pace totale, la più grande forma di gioia, ti sarà data così come la salute corrispondente

Nel momento in cui si riesce a sentire anche la voce della propria divinità interiore, e non solo quella mentale, si comprende come in realtà bisognerebbe condurre la vita.

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Purtroppo siamo abituati a tener conto solo di ciò che vediamo, che tocchiamo, e che percepiamo con i sensi, non vogliamo capire che ci sono forze intorno a noi e dentro di noi così potenti da poterci aiutare a modificare la nostra vita.

Quando l’Ufficiale chiede a Gesù di guarire il suo servo, affermando che basterebbe solo una sua parola, significa che non sa che se solo quel servo avesse creduto alla propria potenza, sarebbe guarito automaticamente, il miracolo sarà poi compiuto dall’Ufficiale stesso, premiato da Gesù per la sua fede, senza sapere di possedere quella capacità.

Non c’è magia, così è.

La fede è la medicina migliore. Una fede che ci hanno sempre mascherato. La fede è dentro di noi e dev’essere dedicata a noi stessi, alla nostra forza intrinseca, cioè il potere smisurato che conteniamo nel nostro profondo.

Ma di soltanto una parola ed io sarò salvato – è vero, ma se sei sordo possono essere pronunciate tutte le parole del mondo, tu non le sentirai mai. Ascolta. Impara a sentire. Impara a percepire la parola che vuole salvarti, ti sta già parlando.

E come dico sempre – Devi credere per vedere e non vedere per credere -.

Prosit!

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Perdonare un Assassino

Ti perdono per non morire

Se hai spento il sorriso di mio figlio non puoi più permetterti di ridere

Ogni giorno qualcuno viene ucciso per mano di qualcun altro e ogni giorno la notizia viene trasmessa dai telegiornali ammazzando anche un pò ognuno di noi dal grande dispiacere.

Molto spesso, alcuni assassini, mentre vengono inquadrati dalle telecamere che, ammanettati salgono o scendono dai veicoli della Polizia, ridono e sogghignano mostrando spocchia e sarcasmo a chi da casa, sconvolto, sta guardando.

antimafiaduemila.com

Al di là della reazione che comporta questo modo di fare, le frasi che escono dalla bocca del pubblico sono sempre le stesse e sovente si sente dire – Hai ucciso una persona e ti permetti di ridere? Maledetto!- oppure – Col ca..o che ridi ancora, hai spento il sorriso di quello che poteva essere mio figlio e ridi? Io andrò in galera ma tu non ridi più te lo dico io! -.

Ecco, ora senza entrare nel tema dell’essere favorevoli o meno alla pena di morte, quel ghigno, in faccia di chi ha ucciso viene davvero preso, ed è comprensibile, come una beffa insopportabile, gravissima dal punto di vista della morale umana. Un’umiliazione senza eguali. Quasi più dell’omicidio stesso che, per alcuni, l’atto in sé, a seconda dei parametri può anche essere compreso, non giustificato ma compreso.

Ecco, è proprio questo il tema, la comprensione e di conseguenza l’eventuale perdono. Parlando chiaro, senza buonismo e falso moralismo, c’è una cosa che mi sballonza in testa da qualche anno, una riflessione nata da una strage e, volevo condividere con voi le considerazioni che questa vicenda ha suscitato in me. Mi riferisco al pensiero, o meglio al sentimento, germogliato nel cuore di uomo che non mi ha lasciata indifferente.

Sto parlando di Carlo Castagna sapete chi è? Detto così forse no ma se invece vi nomino – La Strage di Erba – andate automaticamente tutti al punto.

ilgiorno.it

Si ma Carlo Castagna chi è? E’ il nonno del piccolo Youssef Marzouk ucciso violentemente, nonchè il padre di Raffaella Castagna ammazzata anch’essa assieme ad altre persone dagli ormai, ahimè, famosissimi coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano (almeno stando alla decisione della Suprema Corte di Cassazione di Roma).

newspage.it

Ridevano anch’essi, attraverso le sbarre della cella in Tribunale, ve lo ricorderete.

Nella precisione, al signor Castagna, sono venuti a mancare quindi: la figlia Raffaella, il nipotino Youssef di soli 2 anni e la moglie, presente anch’essa quella sera, Paola Galli. Sono venuti a mancare per mezzo di mani che non li hanno soltanto uccisi ma massacrati, sgozzati, bastonati e infine bruciati.

Ebbene, che sia vero o meno (ma le sue stesse dichiarazioni dicono così e ne è stato scritto anche un libro “Il perdono di Erba” Ed. Ancora), pare che il signor Castagna abbia deciso di perdonare i due assassini (che, tra l’altro, non hanno accettato questo perdono accolto come un gesto del quale se ne poteva fare a meno).

Non c’è la giusta concezione di perdono a mio avviso.

Di tale decisione se ne è fatto un gran tam tam e, se ai tempi avessi avuto già questo blog, forse ne avrei parlato anch’io. Lo faccio ora perché quest’uomo mi ha sempre dato da pensare.

Nel momento stesso in cui ha proclamato di voler perdonare (e addirittura abbracciare per alcuni siti) gli uccisori della sua famiglia, l’Italia si è divisa in due in una frazione che vedeva molto più ampia la parte di coloro che non condividevano questa intenzione.

Quando si parla di perdonare un atto così indegno sembra quasi che, automaticamente, nulla importi della vittima che l’ha subito ed è secondo me proprio questo il fulcro del concetto.

Se perdono chi ha ucciso mio figlio allora vuol dire che di mio figlio non me ne fregava nulla -, o meglio – No, non posso perdonare chi ha ucciso mio figlio perché mio figlio lo amavo più di qualsiasi altra cosa al mondo e lui me l’ha tolto -. Anche detta all’incontrario però il significato non cambia e riporta alla stessa teoria.

Perdonare il criminale è pertanto come mancare di rispetto alla vittima. Dimostrando invece il nostro odio, il nostro rancore e la nostra sete di vendetta, spesso confusa con il “fare giustizia”, dimostriamo che di quella vittima ce ne importava assai e vogliamo restituirle la dignità devastata da qualcun altro.

La cosa assurda è che a volte, anche se volessimo assolvere in cuor nostro, non lo facciamo per non sentirci mal-giudicati dal resto della popolazione.

Perdonare però non significa condonare anche se è visto come suo sinonimo. E’ un qualcosa di molto più profondo, un misterioso meccanismo che accade solamente dentro noi stessi e solo noi stessi riguarda, non ha niente a che vedere in realtà con l’eventuale colpa affidata al criminale.

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Bisogna sempre trovarsi in determinate situazioni e non si può parlare se alcune cose non si sono subite, ma una cosa è certa, ed è quello che mi ha sempre fatto riflettere: Carlo Castagna ha deciso di perdonare per poter continuare a vivere.

Detta così, che buffo, sembra quasi un’opera di egoismo ma, secondo me, è la realtà. Ha trovato il mezzo per poter sopravvivere a tanto dolore, altrimenti sarebbe morto anch’esso. Al di là di dove la fede di quest’uomo sia diretta, quella stessa fede, gli ha suggerito la misericordia e la compassione.

E’ possibile questo?

Non è tanto il capire come abbia fatto a perdonare, mi viene molto più difficile concepire come avrebbe fatto a continuare a vivere se non avesse perdonato.

Pare essere l’ultima cosa che ci rimane da fare ma in pochi, pochissimi, la eseguono. Cioè, riescono a eseguirla.

E’ come se questo perdono mi avesse suggerito che, fondamentalmente, – la Strage di Erba – siamo noi. Qualsiasi omicidio siamo noi. Non siamo solo le vittime con le quali ci immedesimiamo ma siamo anche gli assassini. E non perdonando è come se non perdonassimo noi stessi.

Alla faccia che argomento duro! Lungi da me suggerire il fatto che potrei riuscirci ma sapete cosa vi dico? Che forse, forse vorrei riuscirci.

Conferma Castagna di essere giunto a questo stato di spiritualità dopo strazianti vicissitudini passate con se stesso circondato ormai soltanto da innumerevoli fotografie dei suoi cari sparse per casa. Non gli rimaneva nient’altro, solo immagini e ricordi. Visioni stampate nelle sue retine persino dei cadaveri stessi.

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Ma il perdono non è una scelta, è una grazia – Carlo Castagna.

E’ come se ad un certo punto, il suo cuore, la sua mente e il suo fisico si fossero spenti inermi, senza più farcela e, a parlare, abbia iniziato la sua anima. Che a noi piaccia o meno l’anima perdona.

laparola.info

Tu non hai un’anima. Sei un’anima. Hai un corpo – C. S. Lewis.

Tutto quello che accade ad ognuno di noi è di responsabilità di ognuno di noi. Perché ognuno di noi appartiene al Tutto. E se ognuno di noi si amasse e si perdonasse forse questo Tutto sarebbe migliore di come lo vediamo. Siamo responsabili di un omicidio così come di una vita che nasce, di un sorriso che appare, di un bacio che altre due persone si scambiano. La tristezza e l’angoscia che hanno governato dall’alto il fattaccio di Erba erano le esternazioni di un dolore latente che tutti abbiamo provocato.

In fin dei conti, che cosa comporta il NON perdonare nel nostro cuore? Riporta in vita l’innocente? No. Provoca maggior malessere nel killer? No. E’ possibile condannare ma bisognerebbe farlo senza rancore in noi.

intemirifugio.it

Quello che vorrei dire al signor Castagna è che non posso permettermi di pensarla come lui pur credendo di farlo, ma di una cosa vorrei ringraziarlo: mi ha insegnato una teoria che si tende a celare. Ha fatto emergere un concetto che raramente viene a galla, raramente tocca così tanto un cuore.

Mi ha permesso di riflettere.

Voi cosa ne pensate?

Prosit!

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Io Ti Perdono

Solo chi è libero da tutto e perfino da se stesso, possiede la libertà di amare tutti e di perdonare tutto. Per questo la libertà è il più grande traguardo della vita

(E. Caruso)

Ciao Prositiani, avete passato bene queste feste non ancora finite? Tra poco arriverà la cara, simpatica, vecchia Befana che chiuderà in bellezza questi giorni che ci hanno visto arricchire della presenza di parenti e amici, del piacere di fare regali e riceverli, dello stappare bottiglie di Spumante e tirare fuori la Tombola rintanata in un cassetto dall’anno precedente. Diciamo che questo è un po’ il classico. Per quel che riguarda lo scambio dei doni, quest’anno ho dovuto chiedere parecchio aiuto alla mia fantasia che fortunatamente non mi manca. Si perchè, in un’epoca dove alla maggior parte della nostra gente, non manca fortunatamente nulla, si fatica persino a trovare il pensiero più utile e grazioso. Ho lavorato molto quindi con le mani e con la mente. Modellini, foto, scritte sono state le cose che più mi hanno impegnata e, con mia grande gioia, hanno riscontrato molto successo. Mi è capitato però, di pensare tanto ad una persona che stimo particolarmente e che mi ha sempre aiutata negli anni, durante quegli eventuali momenti di avvilimento e oscurità che a volte colpiscono un pò tutti. L’ho pensata per un motivo particolare che ora vi spiegherò.

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Si chiama Louise Hay e di lei vi avevo già parlato in passato. Un’arzilla e spumeggiante signora di 89 anni che pratica il Pensiero Positivo come mezzo di guarigione (e non solo) e che consiglia invece di donare un qualcosa di davvero grande (e non solo per il 25 di Dicembre), per nulla banale, ossia: il Perdono. Il Nostro Perdono. Sento già i sospiri. Perdonare. E’ davvero dura. Forse però a renderla una cosa così granitica può essere il suo non capirne il senso appieno. Perdonare infatti non significa condonare, nonostante dal latino derivi dallo stesso termine, non vuol dire permettere all’altra persona di continuare a fare nei nostri confronti ciò che ci fa male o ci infastidisce. Significa in realtà lasciare andare, liberarsi cioè dell’energia negativa che essa emana, senza accettare nulla, semplicemente rendendosi liberi. Associamo il Perdono all’assoggettarci al volere di altri, ci mette in contatto con la paura di essere rifiutati, di essere umiliati ancora una volta ma non è assolutamente così. Siamo edulcorati dalla famosa frase – porgi l’altra guancia – verso la quale ci siamo sempre posti un mare di interrogativi che non hanno mai trovato limpide risposte. Non è proprio questo il senso. Perdonare non significa farsi fare ancora più male. In realtà è proprio chi perdona che diventa intoccabile, di una grandezza immensa, smisurata. Libero. Il non perdono, il rancore quindi, si dice faccia più male a chi lo porta nel cuore piuttosto che a chi lo riceve e infatti è una catena con la quale ci si lega automaticamente e ci si soffoca.

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Bisogna cercare di tranciarla per tornare a respirare. Se non respiriamo non possiamo vivere. Perdonare, significa anche perdonare noi stessi. Quanto male abbiamo potuto fare agli altri e soprattutto quanto male possiamo aver fatto a noi. Magari anche involontariamente. Quante volte abbiamo frustrato la nostra anima per compiacere schemi o educazioni. Probabilmente sarebbe assurdo mandare a tutte le persone che abbiamo nella lista, un bigliettino con sopra scritto “Io Ti Perdono”.

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Come minimo penseranno chi mai crediamo di essere, mentre invece sarebbe così bello, così liberatorio. La maggior parte delle persone che riceveranno il nostro foglietto penseranno che siamo convinti di essere Dio in terra (e infatti lo siamo ma quello che non comprendono è che lo siamo tutti, e quindi anche loro, che invece perdono tempo prezioso a risentirsi e giudicarci). In pochi, pochissimi direbbero semplicemente “Grazie”. E mi ripeto, è così bello, così liberatorio! E, sopra ogni cosa, si tratta di una parola che emana energia positiva, buona. Perdono, Perdono, Perdono. Perdonare infatti sa di amore. E’ sicuramente uno degli atti più amorevoli che ci possono essere e ha una potenza incredibile anche sulla nostra salute, sul nostro modo di pensare e di vivere. Vi siete mai guardati allo specchio e detti – Io ti perdono -?

Perdono

Perdonando ci liberiamo di tutte quelle trappole nelle quali esistiamo quotidianamente. E’ come se fossimo circondati da un vischio pesante e colloso che ci impedisce i movimenti. Puliamolo via da noi. Se non perdoniamo, automaticamente vivremmo intrappolati nei sensi di colpa. Per riuscire a farlo, dal momento che non è per nulla semplice, ci sono tanti esercizi che possono aiutare. Io ne conosco due e ve li propongo oggi affinchè non pensiate che questo testo è soltanto un insieme di frasi fatte perchè, credetemi, non è assolutamente così. Ovviamente devono essere eseguiti in un momento di tranquillità, senza nessuno intorno, in quanto bisogna rimanere soli con se stessi e concentrati. Il primo esercizio è quello più breve e più semplice:

dovete pensare al viso della persona che vi ha mancato di rispetto, che vi ha deluso, che vi ha fatto arrabbiare e che merita il vostro perdono. Immaginatela sorridente. Sta sorridendo a voi e continuerà a sorridervi fino alla fine dell’esercizio. Immaginate ora di circondare quel viso di una luce immensa, inondatelo di luce nella vostra mente. Quando lo avrete ben visualizzato, nitidamente, pronunciate la frase “Io Ti Perdono” con tutto il sentimento che potete, dedicandogliela e, lentamente, immaginate il suo viso che fino a poco tempo fa era in primo piano nella vostra visione, allontanarsi sempre di più, diventare sempre più piccolo fino a sparire, come un puntino, entrando in questa luce. Avete lasciato andare. Avete perdonato, vi siete liberati. Avete liberato. Se questo piccolo/grande atto, lo svolgete con passione, vi darà un grande aiuto.

Il secondo esercizio è un po’ più lungo e un pò più impegnativo. Consiglio di sdraiarsi tranquilli e possibilmente al buio o a luci soffuse. Potete anche accendere delle candele, la loro luce calda e fioca aiuta sempre molto.

dopo aver chiuso gli occhi immaginate che si avvicini a voi una persona della quale avete molta fiducia e che vi ha sempre aiutato nella vita quando avevate bisogno. Dev’essere una persona forte, che non si lascia andare alla prima difficoltà. Buona, che in un modo o nell’altro, vi ha sempre dimostrato protezione. Può anche non essere più con voi fisicamente oppure può essere anche una figura inventata purchè in voi istauri coraggio e fiducia. Assieme a lei non potrà accadervi nulla di male. Siete insieme a questa persona in una stanza e, in fondo a questa stanza, c’è una porta chiusa. Voi siete sporchi, malconci, immaginatevi pieni di fango, di melma. Terra viscida che va asciugandosi su di voi inaridendo e, più asciuga, più voi sentite tirare la vostra pelle. Un fastidio. Avete voglia di lavarvi, di pulirvi, di togliervi quella roba di dosso. Quando il vostro “angelo protettore” vi farà cenno, nella vostra immaginazione, che si può iniziare, aprite con fiducia e senza paura quella porta, dalla quale entrerà la persona che abbisogna del vostro perdono. Sarà naturalmente una persona che non sopportate, che vi ha fatto del male e forse vi spaventa persino ma non siete soli e soprattutto, siete forti, siete voi che dovete perdonare e non il contrario. La persona entra, la porta si chiude dietro di lei e ora è da sola, in questa stanza vuota, assieme a voi. Sta soffrendo, è lei ad aver paura, non sa cosa le sta per accadere. Avvicinatevi a lei, il vostro angelo custode è dietro di voi e vi mette una mano sulla spalla per farvi sentire che siete al sicuro. Continuerà a stare con la mano sulla vostra spalla per tutto il tempo dell’esercizio. Se ponete attenzione potrete sentire il suo tatto delicato ma saldo. Dite ora a questa persona che è entrata, tutto quello che vi ha fatto e tutto il dolore che vi ha provocato. Lei vi guarderà e vi chiederà scusa. A questo punto, con amore e compassione, rispondetele “Io Ti Perdono” e vedrete che lei alzerà il viso, vi guarderà sorridendo e vi ringrazierà con sincerità. Se ne andrà via dalla stessa porta dalla quale è entrata e siete di nuovo soli con la figura che vi ha dato forza ed energia. Di colpo, sentite la vostra pelle ripulirsi, liberarsi, respirare. Vi guardate e notate di non aver più quella fanghiglia addosso. Siete lindi, puliti, lucenti. Vi siete illuminati della luce del perdono.

Le sensazioni che si provano dopo essere riusciti nell’intento sono indescrivibili.

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E ci si accorge subito del cambiamento perché ci si sente immediatamente avvolti da un’energia radiosa che scalda e coccola. Ora ci sentiamo al sicuro, ci sentiamo forti e invincibili e pieni d’amore, cioè pieni di quella che è considerata la forza più potente dell’Universo. E sappiate, che sarà proprio lui, l’Universo, a fare il lavoro più duro, il lavoro più “sporco”, quello più faticoso. In realtà voi dovrete solo lanciare in esso il messaggio e poi appunto, lasciar andare. Lui compirà tutto ciò che c’è da compiere. Lui eseguirà tutta la fatica che vede solo come una piccola inezia. Perchè quello che a noi può sembrare sovrumano, per Lui è solo una minuscola gocciolina. Quest’anno, ai miei cari, oltre a cose utili e graziose, ho regalato modellini, foto e scritte e poi ho perdonato, ho perdonato anche me stessa e con tutto il cuore mi auguro che qualcuno lo abbia fatto anche nei miei confronti. Poiché il Perdono è il dono più bello che si possa fare e ricevere.

Il Perdono è la vittoria dei forti – cit.

Buon anno amici.

Prosit!

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